Non si riduce, ovviamente, all’IMU la questione della riforma globale del fisco in Italia. Anzi, la cancellazione tout court dell’IMU costituirebbe un ulteriore passo indietro rispetto ad una ipotesi di normalizzazione del rapporto tra contribuenti e Stato.
L’approccio al problema delle tasse in Italia appare, però, dominato dagli slogan, da rivendicazioni che, spesso, appaiono di bandiera e dall’assenza di una strategia complessiva di ridisegno del sistema.
Possono, dunque, essere utili tre precisazioni.
La prima è che, seppure il peso del fisco sull’economia italiana (42,8% del PIL) è eccessivo, questa incidenza non è molto diversa da quella degli altri Paesi Europei laddove nell’Unione, secondo l’OCSE, ci sono almeno cinque paesi dove questa percentuale è superiore ed in Francia è quasi di due punti più elevata. Ciò non toglie che il costo del Leviatano è un problema per tutti in Europa: servirebbe un impegno solenne che traduca qualsiasi taglio di sprechi nella spesa pubblica complessiva e qualsiasi recupero dell’evasione fiscale in una diminuzione certa della pressione fiscale; tali automatismi sono fondamentali perché produrrebbero consenso sociale diffuso per la lotta ai privilegi e ad un contrasto – civile – di chi fa il furbo.
La seconda è che ancora più che di abbassamento complessivo del peso del fisco sull’economia italiana, bisognerebbe parlare di modifica della composizione delle entrate tributarie e della richiesta che lo Stato fa ai diversi fattori di produzione.
Ad essere penalizzato in Italia è, soprattutto, chi lavora.Basta osservare le statistiche che dicono che se è vero che rispetto agli altri Paese sviluppati (OCSE) i salari netti italiani sono significativamente più bassi (25,000 dollari contro 28,000 nella media OCSE nel 2012) é anche vero che il costo medio di un lavoratore è invece decisamente più alto in Italia rispetto alla media (48,000 contro 44,000): la differenza la fanno i 23,000 euro che il lavoratore e l’impresa devono pagare – in quote quasi uguali – allo Stato, con il risultato di rendere il costo del lavoro massimo per chi assume e minimo per chi è assunto.
Nel frattempo mentre in Inghilterra più dell’11% delle entrate tributarie provengono da quelle sulla proprietà, in Italia la percentuale è di poco superiore al 5%. Del resto nei Paesi più aperti si sono accorti da tempo di un piccolo, cruciale dettaglio: gli immobili sono gli unici indicatori di ricchezza che non si possono muovere, laddove in un’economia globalizzata un aumento di aliquote sul lavoro e sulle imprese può, paradossalmente, ridurre le entrate se spavento un numero sufficientemente elevato di imprese o professionisti. Certo l’IMU va rimodulata, resa più progressiva (cosa che vale per l’intero sistema tributario italiano), ma ridurre le tasse sul lavoro dovrebbe, con tutta evidenza, essere la priorità di un Paese che è al venticinquesimo posto su ventisette Paesi dell’Europa per tasso di occupazione (indice che conta di più di quello più citato di disoccupazione, perché tiene conto anche di chi un lavoro non lo sta più cercando).
La terza precisazione, infine, riguarda la complessità del sistema. Il confronto internazionale ci dice che se sulla pressione complessiva siamo messi male quanto le altre economie europee e sulla composizione delle entrate peggio, per ciò che concerne l’opacità ed il costo di adempimento per il contribuente l’Italia riesce a uscire completamente dagli standard europei. La Banca mondiale – che misura il tempo necessario ad un contribuente per adeguarsi alle richieste del Fisco – mette l’Italia alla posizione 133 subito dopo il Burundi e prima di Antigua.
È vero che normalmente le classifiche internazionali penalizzano l’Italia ma questo della fatica amministrativa di “pagare le tasse” è il parametro nel quale l’Italia registra la sua seconda peggiore prestazione in assoluto (subito dopo quella relativa ai tempi della giustizia).
E allora? E allora di tasse si deve parlare proponendo una strategia globale di cambiamento. Cambiamento che non può essere fermato dalla considerazione di chi si limita a ricordare che gli Italiani sono affezionati al mattone, perché se vogliamo sopravvivere in un contesto di competizione per l’attrazione dei fattori di produzione di maggiore valore, quel mattone rischia di essere quello legato al collo di una intera società che sta affondando.
Bisogna, quindi, rovesciare l’ordine delle priorità e vanno nell’ordine a) semplificati gli adempimenti – al punto di mettere chiunque nella possibilità di fare la dichiarazione senza il commercialista – e rese più legittime le attività di riscossione – o perlomeno compatibili con il trattamento che un cittadino creditore dello Stato riceve; b) ridotto subito il peso del fisco sulle imprese e sui lavoratori per incoraggiare la crescita; c) finanziarlo con una intelligente riduzione della spesa pubblica o con un recupero della zona di non evasione che un fisco più forte e più credibile può ottenere.
È una riforma globale indispensabile per ricostruire il patto tra cittadini e Stato che è attualmente lacerato. È una sfida che Enrico Letta può e deve lanciare ai due partiti che lo sostengono e di cui si deve assumere la responsabilità diretta perché è una delle partite decisive: non solo per la crescita, ma per superare le divisioni ideologiche che hanno tenuto l’Italia in coma per vent’anni.
Articolo pubblicato su Il Messaggero e Il Mattino del 13 Maggio