Domenica 26 maggio i bolognesi saranno chiamati a esprimersi – con referendum consultivo – sull’utilizzo dei fondi comunali a favore delle scuole paritarie dell’infanzia. La questione, complessa e difficilmente separabile dal contesto locale, sta assumendo un significato e una portata nazionali. Soprattutto, sembra gravata sempre più da toni ideologici e da battaglia campale che non giovano a comprendere le questioni in ballo. Apparentemente, i fronti che si contrappongono sono due. Da un lato i promotori del Referendum – il Comitato Art. 33, che raccoglie associazioni di genitori e insegnanti, associazioni di sinistra, sindacati di base, la Fiom di Bologna, Sel, il M5S, comitati in difesa della Costituzione; dall’altro il Comune di Bologna, il Pd locale, e una serie di personalità politiche e culturali cittadine che hanno sottoscritto il Manifesto a favore del sistema pubblico integrato bolognese della scuola dell’infanzia.
Il comitato referendario propone il seguente quesito: “Quale fra le seguenti proposte di utilizzo delle risorse finanziarie comunali che vengono erogate secondo il vigente sistema delle convenzioni con le scuole d’infanzia paritarie a gestione privata ritieni più idonea per assicurare il diritto all’istruzione delle bambine e dei bambini che domandano di accedere alla scuola dell’infanzia? a) utilizzarle per le scuole comunali e statali b) utilizzarle per le scuole paritarie private”. Secondo i promotori del referendum, il voto per a) sarebbe un voto per la difesa della Costituzione, della scuola pubblica, della laicità, dei diritti, dell’equità, mentre un voto per b) equivarrebbe a un voto per il Cardinale Bagnasco (che non ha lesinato critiche al referendum), a favore del finanziamento della scuola privata cattolica, contro la scuola pubblica, per la sussidiarietà in salsa neoliberale. In realtà, credo che la questione sia ben più complessa, e i fronti siano più di due.
Come è noto, la legge 62/2000, meglio conosciuta come legge Berlinguer, stabilisce che il sistema d’istruzione nazionale è costituito da scuole statali, paritarie private (no-profit), e degli enti locali (ossia comunali), a formare un sistema integrato di scuole che svolgono tutte un servizio pubblico. L’esperienza bolognese del ‘patto integrato’ data da ancora prima, in virtù di una legge regionale. In ballo, qui, non è una scelta tra pubblico e privato, ma tra concezioni del pubblico – assimilato allo Stato o pensato come insieme di soggetti locali espressione e della sfera politica e di quella sociale. Un secondo aspetto è quello economico. Il Comitato referendario denuncia il finanziamento alla scuola privata a fronte dei ripetuti tagli a quella pubblica.
Sull’altro fronte, oltre a far notare che si tratta di contributo e non di finanziamento, si rileva come il patto integrato e il relativo contributo comunale alle paritarie sia in realtà economicamente vantaggioso. Secondo Stefano Zamagni, ad esempio, “il Comune di Bologna investe 127 milioni di euro per la scuola pubblica, ¼ del suo bilancio. Di questi fondi, 1.055.500 euro (pari al 0,8%) sono destinati alle scuole paritarie convenzionate che accolgono oggi 1.736 bambini”, molti dei quali non troverebbero posto nelle liste in assenza di quel contributo, giacché il costo pro-capite nelle scuole comunali per l’amministrazione cittadina è di 6.900 euro, e con quella cifra si potrebbero coprire solo 150 posti circa. Un terzo aspetto chiama in causa il rapporto tra libertà di scelta (delle famiglie), qualità del sistema scolastico e equità del sistema stesso.
Secondo i promotori del referendum, evidentemente, solo un assetto scolastico istituzionale unico è in grado di fornire standard educativi elevati, e soprattutto di ottemperare all’obbligo di una educazione all’autonomia e alla cittadinanza universalistica, così come solo un assetto scolastico istituzionale unico è in grado di evitare la marginalizzazione delle fasce sociali più deboli conseguente alla liberalizzazione del sistema. Dall’altro fronte, si sottolinea invece la necessità di un’offerta didattica che calibri progetti educativi non svuotati di contenuti valoriali ispirati a specifiche visioni del mondo e della vita, che siano religiose, filosofiche o altro, condivise da studenti, famiglie e scuole.
Come è evidente, in questione è insomma il modo in cui identità e diversità vengono pensate in relazione tra loro. Il problema è che a fronte di una questione complessa e serissima, i toni (sulla stampa e sul web) sono invece per lo più da ennesima crociata ideologica, che oppone guelfi e ghibellini. I campi, invece, non credo che siano due, ma tre, e che nei due fronti l’un contro l’altro armati ci siano un po’ di ambiguità e ‘furbizie’. Il fronte referendario – in cui per l’ennesima volta dispiace dover trovare una sinistra che fatica a non farsi guidare dalla coazione a ripetere – opera una serie non indifferente di forme di riduzione della complessità, la cui vittima è il pluralismo: pubblico uguale statale, paritario uguale cattolico (senza distinguere fatti e norme), statale uguale garanzia di eguaglianza, autonomia e solidarietà, laicità uguale espulsione contenuti religiosi dallo spazio scolastico.
Dall’altra parte, c’è una diffusa tendenza strumentale a difendere il sistema integrato per difendere la libertà di scelta educativa nel sistema scolastico di una specifica parte, quella cattolica, che alla prova dei fatti quasi satura l’insieme delle paritarie; vittima, anche in questo caso, è il pluralismo, senza con questo voler disconoscere che nel campo di chi non voterà A ci siano non solo apologeti del monopolio educativo cattolico, ma anche genuini difensori di una visione del pubblico pluralista. Tuttavia, in sede di discussione e riflessione, è un errore ridurre i termini della questione ad una scelta tra una scuola pubblica-statale-laica perché cieca rispetto a contenuti religiosi, da un lato, e un sistema scolastico che preveda una pluralità di istituzioni ciascuna delle quali rispondente ad una propria visione del mondo (di fatto, nel caso italiano, sostanzialmente cattolica).
Se questa fosse la scelta, le ragioni del pluralismo sarebbero difese meglio da un sistema come quello integrato di cui si propone lo smantellamento, al quale bisognerebbe però chiedere un rigoroso controllo sulla qualità dell’insegnamento – non sempre garantita – e una effettiva pluralizzazione, mettendo diverse identità culturali e religiose in condizione di concorrere al sistema scolastico nazionale, e il mondo cattolico davanti ad una richiesta di coerenza. Ma la possibilità ulteriore, inesplorata anche solo nel dibattito salvo rarissimi casi, è quella di portare il pluralismo e i contenuti delle diverse identità nelle istituzioni scolastiche statali e comunali, attraverso forme di governance che integrino il sistema scolastico dall’interno. Per alcuni, il sistema scolastico integrato oggi assomiglia a un campo militare, in cui un sistema di casematte monocolore cinge d’assedio un fortino asserragliato a difesa dell’educazione repubblicana.
Per altri, quel fortino è ideologicamente ostile a tutto quel che sta fuori dal suo spazio e al di là del ponte levatoio, e le casematte altro non sono che strenua difesa di libertà. Forse andrebbe dismessa la metafore militaresca, e portare i colori della paritarie dentro lo spazio comune, rendendolo un po’ meno grigio, e togliendo al tempo stesso ragioni pretestuose a chi in nome della libertà di scelta mette a repentaglio equità, qualità e pluralismo effettivo del sistema scolastico.