I costituenti non ebbero alcun dubbio: la tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” e la “garanzia delle cure gratuite agli indigenti” sarebbero state parti fondanti del Patto sociale che avrebbe garantito e caratterizzato lo Stato che nasceva dalle rovine della Guerra. A distanza di settant’anni, l’Italia – in questo accompagnata da tutti gli altri Paesi di welfare avanzato – è costretta ad un ripensamento radicale: come faccio a rendere più efficiente e, soprattutto, capace di rispondere a bisogni di cura e di salute totalmente nuovi, quello che è, di gran lunga, il servizio pubblico che costa di più? Buttando via lo sporco dello spreco (e della corruzione) senza torcere un solo capello ad un bene essenziale che è tra i pochissimi in grado ancora di tenere in piedi un’idea di società? E, soprattutto, ha senso dopo 45 anni che il sistema sanitario nazionale sia gestito dalle Regioni, laddove se il Governo provasse a dare ragione al Governatore del Piemonte Chiamparino che lo invita polemicamente a riprendersi la sanità e i suoi debiti, alle Regioni verrebbe meno buona parte delle ragioni che ne giustificano l’esistenza?
Cento miliardi. La Sanità costituisce – da sola – un terzo di tutto ciò che lo Stato spende (al netto degli interessi sul debito pubblico e delle pensioni) per fornire servizi ai cittadini. Una cifra che è due volte quella che costa al contribuente l’istruzione (dagli asili alle università), e cinque volte superiore a quella che costa allo Stato l’ordine pubblico e la giustizia. Bastano questi numeri per spiegare perché la sanità e’ al centro di qualsiasi tentativo di razionalizzare la spesa pubblica. E, tuttavia, il sistema sanitario nazionale – a differenza di altri comparti dell’amministrazione pubblica – sembra funzionare abbastanza bene se consideriamo i suoi parametri più essenziali: una delle poche classifiche internazionali nelle quali primeggiamo, dice che gli italiani vivono in media 82 anni più di qualsiasi altro popolo europeo; quasi due anni più dei francesi che pure spendono – a persona – quasi il 50% più degli italiani per cure. Il confronto con i francesi che secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità dispongono del migliore sistema sanitario del mondo, nonché dell’ambiente con la migliore qualità della vita e di una dieta non molto diversa da quella mediterranea, è particolarmente illuminante perché dice che, come minimo, la nostra sanità non è da buttare.
E, tuttavia, ampi spazi di miglioramento esistono anche in un tempo sufficientemente breve per poter essere utilizzato da una legge finanziaria dello Stato; laddove essi diventano, poi, opportunità colossali se dovessimo ragionare in una prospettiva di medio periodo che consideri la possibilità che le tecnologie stanno per cambiare tutto.
Sul breve è, in effetti, proprio la diversità di modelli organizzativi in territori diversi a fornire le opportunità di miglioramento più significative, sono i confronti tra Regioni che misurano quanto è ampio tale potenziale ed è tale diversità che un federalismo mai compiuto avrebbe voluto utilizzare come leva di revisione intelligente della spesa.
Sarebbe sufficiente adottare i modelli organizzativi del Veneto o dell’Emilia Romagna – dove si spende, secondo ISTAT, in Sanità meno che nelle Regioni meridionali ottenendo livelli di soddisfazione da parte dei pazienti superiori al 50% – alla Sicilia o alla Campania – dove secondo il ministero della Sanità sono a rischio le prestazioni sanitarie minime – per risparmiare più delle previsioni che la Legge di Stabilità tenta di far passare e migliorare, in maniera significativa, il rapporto con i cittadini.
Tuttavia, anche qui, è sbagliata l’idea di procedere a colpo di commissari che intervengono solo quando il cattivo funzionamento diventa patologia meritevole dell’intervento della magistratura o della Corte dei Conti. Il lavoro di imitazione delle prassi positive dovrebbe essere, invece, molto più sistematico: dovrebbe essere innescato da meccanismi di valutazione finalmente trasparenti e procedere più per ospedale o tutt’al più per ASL che non per Regioni intere.
Cambia tutto, invece, se non ci poniamo nell’ottica (pur indispensabile nel breve periodo) di una Finanziaria, ma di un futuro che non può più aspettare e che con le tecnologie cambierà tantissimo in un settore che è totalmente basato sulle informazioni.
In un mondo nel quale è già tecnicamente fattibile che ad essere collegati tra di loro siano più non solo i computer, o le macchine (come nel paradigma di “Internet of the things”), ma i corpi degli esseri viventi, sempre di più, anche se in maniera differenziata per patologie, sarà possibile erogare i “servizi della salute” a distanza: monitorare le condizioni dei pazienti attraverso sensori; intervenire – in caso di emergenze – in automatico mandando un’autoambulanza o sciogliendo da remoto una data sostanza nel sangue che blocchi certi processi degenerativi; effettuare operazioni chirurgiche incorporando in una macchina il know how di un grande specialista.
In questo contesto che non è fantascienza perché già avviene, lo stesso principio – sul quale si fondano i sistemi sanitari nazionali moderni – di garantire a tutti certi servizi entro un certo raggio di chilometri, verrà sostituito con quello di doverli rendere accessibili anche senza il contatto fisico con il medico o l’ospedale.
Salvaguardando la previsione di una Costituzione che fu in questo modernissima ad un prezzo potenzialmente molto più basso. Liberando risorse aggiuntive per bisogni (ad esempio quelli determinati da mali oscuri della modernità come la depressione e la ridotta fertilità) che oggi la sanità pubblica non copre. E facendo, però, saltare in aria il bisogno di organizzare il servizio su base locale o regionale, perché in un mondo ad elevata tecnologia è inevitabile che i diversi ospedali, i diversi territori si specializzino sempre di più scambiandosi i pazienti.
Più ASL e ospedali che Regioni (che, spesso, moltiplicano i difetti degli Stati nazionali senza averne le economie di costo); maggiore efficienza attraverso un confronto serrato tra prestazioni ottenute dai diversi presidi ed il costante trasferimento delle prassi organizzative migliori ai contesti in maggiore sofferenza; molta più intelligenza al centro, ad un Ministero della Salute – svuotato colpevolmente in questi anni di competenze – per poter guidare una trasformazione che è gravida di opportunità ingenti e di pericoli (che sono insiti nell’idea stessa di collegare corpi e macchine).
Dovrebbero essere questi i termini di una strategia per il sistema sanitario nazionale che superi i vizi dei satrapi locali che hanno trasformato spesso le corsie in centri di potere. Ma anche la logica dei ragionieri che devono far quadrare i conti con l’Europa ma non hanno idea di come uscire dalla guerra di posizione tra custodi dell’austerità e difensori di un welfare che ha grandi meriti storici e un incerto futuro.
Articolo pubblicato su Il Messaggero del 26 ottobre 2015