Riuscirà il disegno di legge sulla riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche proposto dal ministro Madia a sopravvivere alla maledizione che ha colpito le tante riforme della macchina dello Stato che, in questi ultimi vent’anni, hanno spostato montagne di capitale politico e intellettuale per partorire topolini incapaci di sopravvivere all’inerzia delle burocrazie? Indubbiamente il ministro sta dimostrando una certa dose di pragmatismo, accoppiato alla capacità di mediazione che è fondamentale per non far impallinare la sua “riforma” prima ancora che veda la luce (come in parte è successo per quella sulla Scuola). Tuttavia, la sostenibilità del cambiamento che la Madia sta proponendo dipende da una serie di dettagli dietro i quali si nasconde il diavolo delle controriforme striscianti che hanno depotenziato i tentativi dei suoi illustri predecessori. Su questi dettagli il Governo interverrà con una ventina di decreti attuativi che determineranno l’esito finale.
In effetti, varare “riforme” non è, in se, garanzia di successo. Lo dimostra bene, a livello europeo, un’analisi imbarazzante che pochi hanno citato in questi giorni di furore ideologico sulle vicende greche: la prima tavola dell’ultimo rapporto (“going for growth”) dell’OECD, riferimento assoluto dalle organizzazioni internazionali per raccomandare “riforme”, dice che la Grecia è il Paese che ne ha fatte di più, tra tutti quelli avanzati. E, tuttavia, ciò non è riuscito ad evitare, come tutti sanno, che il PIL cadesse del 20%, che il rapporto tra debito pubblico e PIL passasse dal 130 al 170% e che lo spettro del fallimento tornasse a minacciare quello dell’intero progetto europeo.
In realtà, le riforme possono fallire per due motivi – di assoluto buon senso – che discorsi troppo macro continuano ad ignorare. Il primo è che ad una pur sofisticata legge (una “riforma” lo è) può non corrispondere alcun cambiamento: ciò si verifica quando la legge non riesce a convincere le persone il cui comportamento si propone di cambiare.Il secondo è che, pur essendoci cambiamento, la modifica non è per il meglio ed essa sortisce esiti opposti a quelli voluti, per averne ignorato alcune possibili conseguenze.
Al primo tipo di “fallimento” sembra appartenere la storia delle trasformazioni dell’amministrazione pubblica a cui si è dedicata buona parte del miglior “riformismo” italiano che, tuttavia, nell’assenza di risultati tangibili ha bruciato parte consistente del proprio capitale politico. Di “new public management”in Italia si parla dal mitico decreto legge 29 del 1993 firmato da Sabino Cassese e da Giuliano Amato: se oggi, come dice uno studioso attento come Gianfranco Rebora, un esperto di diritto amministrativo osservasse – dopo vent’anni – le organizzazioni pubbliche italiane prenderebbe atto che un’ondata di rivoluzioni successive ne hanno cambiato totalmente i connotati; al contrario però, un cittadino, che facesse ritorno in Italia vent’anni dopo, si troverebbe ad avere a che fare con problemi e, persino, con persone che sono rimaste sostanzialmente le stesse.
La Madia sembra fare una scelta precisa: focalizzare buona parte delle sue energie sulla componente che condiziona tutte le altre: la carriera dei dirigenti. Sono i dirigenti, del resto, quelli che possono determinare gli esiti di qualsiasi trasformazione e che, spesso, vi si sono opposti; sono loro la cerniera tra potere politico che cambia di continuo e strutture che sono, invece, stabili; secondo le comparazioni internazionali proposte, ad esempio, da Roberto Perotti, sonopiù pagati dei propri omologhi europei (mentre la restante parte del personale delle amministrazioni pubbliche italiane sono pagate di meno) e da loro ci si aspetta, quindi, una maggiore disponibilità ad accettare la sfida della riorganizzazione.
Le decisioni che il disegno di legge propone sonodrastiche. Dall’inamovibilità (concetto già diventato relativo da qualche tempo) si passa al suo contrario: uno spostamento automatico dopo un certo periodo di tempo (quattro anni eventualmente prorogabili per altri due) passati in una certa posizione. Dall’attaccamento ad una determinata poltrona si passa ad un ruolo unico che, per definizione, sposterà i dirigenti da un’amministrazione ad un’altra e, quindi, ad una flessibilità persino superiore a quella che si trova nel privato. L’assunzione avviene solo per concorso (e ciò dovrebbe immunizzare il sistema da episodi come quello dei settecento dirigenti illegittimi che rischia di mettere in ginocchio l’Agenzia delle entrate). Lo stesso licenziamento diventa molto meno traumatico: esso scatta dopo essere stato parcheggiato per un certo periodo di tempo nella lista dei dirigenti disponibili e senza incarico ed, almeno, una valutazione negativa e può essere attutito passando ad una qualifica più bassa.
Indubbiamente per i dirigenti pubblici la riforma può essere una rivoluzione copernicana. Tuttavia, questa riforma che, pure, sembra potersfuggire alla maledizione delle riforme senza cambiamento, corre ancora il rischio di poter produrre una trasformazione in negativo, se il governo non la metterà in sicurezza da possibili abusi.
In particolar modo sono due i nodi che i decreti legislativi o eventuali ulteriori interventi dovranno sciogliere. Il primo è quello della valutazione: per non cadere dalla padella dei burocrati che affossano qualsiasi cambiamento nella brace della discrezionalità della politica, è indispensabile che – aldilà delle promesse sull’indipendenza dei “valutatori” – la valutazione sia predeterminata, fatta su (pochissimi) indicatori oggettivi e che tali indicatori sianolegati alla qualità del servizio ricevuto dai cittadini. Ciò è fondamentale per coinvolgere i cittadini stessi in una riforma così difficile e dare ad essa una forte valenza politica.
Il secondo è l’autonomia:un dirigente valutato deve avere le leve per poter condizionare la prestazione dell’organizzazione di cui è responsabile. A partire da quelle della selezione del personale di cui si avvale, dell’organizzazione interna attraverso la quale si raggiungono determinati obiettivi.
Questo ragionamento, prima o poi, ci porterà a fare i conti con il nodo gordiano che rischia di strozzare tutte le riforme della macchina amministrativa che abbiamo finora provato: la pretesa (costituzionale) che gli uffici pubblici siano regolati per legge e che solo dalla legge può essere cambiata la loro organizzazione.
È un approccio intelligente quello tentato dell’ultima riforma, perché si concentra su un aspetto creando i presupposti per ulteriori cambiamenti senza i quali la trasformazione rischia di avere effetti controproducenti. Continuerà a servire, però, l’umiltà di chi sa di aver fatto solo il primo passo e la capacità di leadership di accompagnare un progetto il cui successo dipende interamente dalla capacità di coinvolgere la società italiana attraverso miglioramenti concreti.
Articolo pubblicato su Il Messaggero ed Il Gazzettino del 22 Luglio