Da più di dieci anni Cass Sunstein annuncia i pericoli di una dieta informativa personalizzata. Se ci facciamo tutti quanti il nostro giornale scegliendo le notizie che più ci piacciono – sostiene il giurista di Chicago stretto collaboratore e amico di Barack Obama – cosa ne rimane della condivisione pubblica, del confronto, della discussione aperta delle questioni di interesse generale? Dal celebre Republic.com in avanti, Sunstein sostiene in sintesi che: se le informazioni si consumano solo sul web nel quale il filtro siamo noi, allora la nostra democrazia è in pericolo.
Il 17 settembre lo Zar (così i Repubblicani chiamano il potente professore) torna sulla questione sul New York Times. In vero, non c’è traccia della Rete anche se, va detto, lo spauracchio digitale alleggia sullo sfondo. Sunstein torna sulla qualità delle informazioni e su come queste possano contribuire al dibattito pubblico.
Una delle questioni a cui tiene Sunstein è quella dell’autorevolezza. I giornali per storia tradizione, professionalità e metodo, garantiscono (o almeno dovrebbero) della veridicità di quel che scrivono. La testata (in linea teorica) garantisce che se scrive che i mari si riscaldano, allora esiste un qualche studio scientifico nel quale si certifica che i mari sono realmente più caldi.
La preoccupazione di Sunstein è come far cambiare idea a chi è convinto di idee irragionevoli o evidentemente false (quelli che credono ai complotti, all’Obama islamico o all’inesistenza del riscaldamento globale). Insomma, come certificare una notizia? Cosa ci spinge a cambiare idea di fronte a un’evidenza? Anzi, cosa fa di una evidenza una evidenza? Non è per niente facile raggiungere questo obiettivo, lo testimoniano molti studi recenti, sostiene il professore democratico. La polarizzazione delle idee esiste e non sono le informazioni bilanciate a modificare una contrapposizione radicale nell’opinione pubblica. Addirittura c’è il rischio che la polarizzazione si radicalizzi di fronte ad argomenti convincenti e ragionevoli. Ognuno si fida di chi gli racconta come stanno le cose, assecondando le sue convinzioni.
E allora?
Can anything be done? There is no simple term for the answer, so let’s make one up: surprising validators.
Il punto che Sunstein vuol sostenere è che non si tratta di far circolare solo informazioni più bilanciate. Non è più sufficiente se chi vogliamo convincere è straconvinto delle sue. Quel che importa è trovare “testimonial” che sappiano convincere, addirittura far cambiare idea. Insomma, qualcuno che sia in grado di farci digerire il boccone amaro che ogni cambio di opinione impone. E al di là del contenuto, sono più convincenti coloro che per molte ragioni “a pelle” non rifiutiamo.
In buona sostanza, Sunstein sta sostenendo che la reputation del validator di un’informazione conta in prima istanza più del contenuto informativo. E che molto spesso quella reputazione non è costruita grazie a valutazioni razionali ma attraverso emozioni, sentimenti, gusti ecc. Insomma, se si tifa per la Roma spesso ci si fida di più di un romanista che di un laziale anche se il tema è il climate change. E i voltagabbana a volte sono più convincenti dei coerenti.
It follows that turncoats, real or apparent, can be immensely persuasive. If civil rights leaders oppose affirmative action, or if well-known climate change skeptics say that they were wrong, people are more likely to change their views.
La morale di Sunstein è dunque:
Here, then, is a lesson for all those who provide information. What matters most may be not what is said, but who, exactly, is saying it.
Che non è proprio consolante per chi si occupa d’informazione.