Il peggio per Roma deve ancora arrivare. Lo dicono i numeri del bilancio dello Stato e della storia recente di questo Paese. Anche se è vero che i momenti di crisi più buia sono anche quelli dove una città può avere un sussulto e, con umiltà, intravedere che da una situazione come questa se ne esce rinunciando all’idea che ci sia davvero qualcosa di eterno.
A dare un’idea di quanto la Capitale sia vulnerabile lo dicono i numeri della Ragioneria Generale dello Stato che regionalizza la spesa pubblica, quel mostro, la cui quantità e soprattutto bassa qualità sembra essere l’origine di tutti i nostri guai.
Nel Lazio e , dunque, quasi per per intero a Roma, è concentrato quasi un quarto di quanto lo Stato spende ogni anno per le forze dell’ordine e il funzionamento dei suoi tribunali. Quasi un terzo di quanto una Repubblica da quattro anni sull’orlo del fallimento spende in difesa e per i suoi beni culturali. Vero questa è la città più grande (anche se molto di più lo sono Parigi e Londra rispetto alla Francia e all’Inghilterra che, pure, non ospitano concentrazioni di uffici così elevate). Vero questa è la città che ospita il maggior numero di scioperi e manifestazioni (ma è anche vero che ciò crea un indotto per commercianti e ristoratori). Ed è vero anche che a Roma c’è il maggior numero di reperti artistici (e, tuttavia, questo è il Paese che ha inventato le signorie e che è caratterizzato proprio per avere almeno quattro delle città d’arte più famosi del mondo). Ma a giustificare una concentrazione così formidabile di amministrazione pubblica ci può essere solo un altrettanto formidabile concentrazione di quartieri generali di ministeri.
Chiunque, un giorno forse non lontano, voglia fare una revisione della spesa, senza il vincolo – non toccare il personale – che ha condannato alla marginalità i tentativi di Cottarelli, Giarda e Bondi, non potrà non trovare a Roma, nei quartieri generali molto più che nei luoghi di erogazione dei servizi al pubblico a Caserta o a Cesena, il grasso residuo che va tagliato o riqualificato se vogliamo uscire dalla sindrome della non crescita alla quale siamo inchiodati da vent’anni.
Ed, in effetti, a Roma c’è praticamente solo l’amministrazione pubblica.
Pochi lo sanno, eppure secondo ISTAT, a Roma solo l’8% degli occupati lavoro nell’industria. A Torino ovviamente il 25. Ma anche a Napoli e a Bari il 14%.
Pochissimi giornali lo dicono ma solo l’8% del PIL della provincia di Roma viene dalle esportazioni. A Firenze e a Bologna che non sono Nord, rispettivamente il 29 e il 37.
Del resto, Roma, anche questo è un dato che pochi citano, nel 1870 aveva circa 80,000 abitanti. Torino che aveva appena rinunciato al ruolo di capitale, mezzo milione, e settecentomila persone vivevano a Napoli, la grande sconfitta. E Roma, anche questo è un dato fondamentale, è l’unica città europea importante, a non aver praticamente vissuto la rivoluzione industriale, già consumata quando diventando capitale tornò nella storia europea. La conseguenza è fondamentale per capire quello che sta succedendo oggi e le immagini surreali della “grande bellezza”: questa città non ha mai avuto una classe operaia e, neppure, quella borghesia intellettuale e industriale che fanno le radici di Londra o di Torino.
Forse, quella che stiamo vedendo è solo il risultato finale di una scelta sbagliata. Dell’illusione di essere eterni che pure era giustificata per essere Roma, il “brand” che più di qualsiasi altro ha attraversato i secoli: dalla caduta di Romolo Augustolo, attraverso Bisanzio, fino ad arrivare al Sacro Romano Impero che era la Germania e che finisce con il congresso di Vienna. “Viviamo per un nome, per un grande sogno” dice il generale Massimo diventato gladiatore a Commodo in uno dei film di maggiore successo degli ultimi dieci anni. È, in parte, ancora vero se ci si ferma per un attimo tra le rovine abbaglianti del Foro imperiale.
E, tuttavia, il modello di una città che vive solo del suo nome e della sua eternità, che diventano cinismo e abuso, irresponsabilità e mafia, è finito. Non è più sostenibile per un Paese intero, l’Italia, che forse si è consumato inseguendo quel sogno.
Non sorprende i romani l’ultimo scandalo. Basta osservare le strade. Non c’è un lavoro che non è un rammendo parziale. Plasticamente dimostrano che il sistema degli appalti pubblici non funziona più da tempo. Che serve solo per le ditte che vincono le gare. Che i cittadini sono scomparsi. Anche se fu a Roma che si inventò il concetto.
La svolta è a un passo. Passa però da un atto di consapevolezza che non possiamo più farci sfuggire. Capire che siamo una città normale. Un Paese normale. Che deve vivere di innovazione, di ragazzi che studiano, di lavoro, di strade pulite, di confronto leale. Persone che esistono a Roma ma sono diventate quasi invisibili. In un Paese normale esiste la crisi ed esiste la corruzione. Qui ad un certo punto c’è stato solo quello. Ed è diventato questo il punto di non ritorno.