ZATTERA SCIOLTA

Giovanni Cominelli

Laurea in Filosofia nel 1968, dopo studi all'Università cattolica di Milano, alla Freie Universität di Berlino, all'Università statale di Milano. Esperto di politiche dell’istruzione. Eletto in Consiglio comunale a Milano e nel Consiglio regionale della Lombardia dal 1980 al 1990. Scrive di politiche dell’istruzione sulla Rivista “Nuova secondaria” e www.santalessandro.org, su Libertà eguale, su Mondoperaio. Ha scritto: - La caduta del vento leggero. Autobiografia di una generazione che voleva cambiare il mondo. Ed. Guerini 2008. - La scuola è finita… forse. Per insegnanti sulle tracce di sé. Ed. Guerini 2009 - Scuola: rompere il muro fra aula e vita. Ed. Guerini 2016 Ha curato i volumi collettivi: - La cittadinanza. Idee per una buona immigrazione. Ed. Franco Angeli 2004 - Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria? Ed. Guerini 2018

LA QUESTIONE DOCENTE

La questione degli insegnanti. Nella scuola lunga storia di immobilità e riforme mancate
Giovanni Cominelli·27 Agosto 2024

Anno (scolastico) nuovo, scuola nuova? Non pare.

Da ogni parte degli schieramenti politici e culturali si converge sull’idea che il sistema di istruzione sia il motore principale della costruzione della Nazione e sulla facile constatazione che è sempre più inceppato. All’inizio di ogni anno scolastico ciascuna delle forze in campo propone analisi e fa proposte di cambiamento. “La riforma della scuola” è uno dei più longevi miti programmatici dei governi e delle opposizioni a settembre. Talmente longevo che attraversa i decenni come la salamandra il fuoco. Niente paura: il dibattito dura meno di un mese.

La ragione è che, dopo la riforma della scuola media del 1963 e dopo la riforma della scuola di base del 1985 della Falcucci, tanto Luigi Berlinguer nel 1996 quanto Letizia Moratti nel 2001 non sono riusciti ad andare oltre. Così “l’emergenza scolastica” costituisce almeno la metà dell’”emergenza educativa” del Paese. Detta in termini più crudi: essa è la causa prima del declino dell’Italia. Il Paese non riesce più a tenere dietro all’Europa e al mondo.

A tal punto che qualcuno l’ha buttata, ormai, sul piano dell’epistemologia critica delle riforme: la pretesa di fare riforme sarebbe una forma di giacobinismo. E così oscilliamo pigramente tra il giacobinismo velleitario e il doroteismo rassegnato, travestito da teoria della complessità.

Gli assi culturali europei

È questione di assi culturali? Al netto di una qualche tensione puramente ideologica tra sovranisti-identitari e globalisti, gli assi di competenza sono già stati definiti dal Parlamento europeo e dal Consiglio nella Raccomandazione del 18 dicembre 2006 e riconfermati il 22 maggio 2018. Essi sono: la competenza alfabetica funzionale, la competenza multilinguistica, la competenza matematica, la competenza in scienze, la competenza in tecnologie ed ingegneria, la competenza digitale, la competenza personale, sociale, la competenza in materia di cittadinanza, la competenza imprenditoriale, la competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturale. In questo elenco si trova intero l’uomo vitruviano di Leonardo. Passare da questo elenco al “Sillabo dei saperi” e ai programmi è compito dei Ministri nazionali dell’Istruzione. Per quanto riguarda l’Italia, il Ministro Fioroni ha fatto un primo passo con il Decreto del 22 agosto 2007 n. 139. Che aveva sintetizzato le esondanti e enciclopediche indicazioni europee in “quattro assi”: l’asse dei linguaggi, l’asse matematico, l’asse scientifico-tecnologico, l’asse storico-sociale.

Chi comanda il sistema nazionale di istruzione?

Tradurre i saperi in competenze, programmi, organizzazione concreta del sistema di istruzione è compito del sistema educativo e di istruzione nazionale.

Ma qui sta nascosta la pietra d’inciampo di ogni tentativo di riforma passato, presente, futuro del sistema di istruzione. Finché non sarà rimossa, tutto il dibattito sugli assi culturali, sull’identità italiana, sul multiculturalismo, sul globalismo servirà soltanto a riempire le pagine culturali dei giornali, ma non genererà nessuna riforma. La pietra d’inciampo è la questione della formazione, reclutamento, retribuzione, carriere del corpo docente. Il fatto è che i docenti sono la classe dirigente reale del Paese, perché sono la matrice intellettuale diffusa della cittadinanza. La qualità professionale dei docenti decide della qualità del Paese. Si tratta di un filtro spesso di almeno ottocentomila persone, da cui dipende il futuro del Paese. Basterebbe questa semplice constatazione per spingere l’intero mondo della cultura e della politica a convergere su una riforma dello statuto della professione docente.

Al momento, che dura da decenni, i padroni del vapore docente sono due: l’Amministrazione ministeriale e i Sindacati. L’Amministrazione è divenuta sempre più pervasiva in procedure e adempimenti nella vita quotidiana didattica degli insegnanti. Chi puntava sull’informatica per snellire gli iter burocratici si è subito dovuto ricredere. I motori dell’invasione burocratica sono noti: l’ideologia e la pratica ossessiva della privacy, l’incubo dei ricorsi e dei Tar, la crescente intrusione aggressiva dei genitori, la fragilità crescente dei ragazzi. In risposta l’amministrazione costruisce incessantemente casematte procedurali di garanzia, che proteggono e soffocano come le sbarre di una prigione.

L’altro padrone sono i Sindacati. Le cifre ufficiali degli iscritti da loro fornite sono assai variabili negli ultimi anni, non sono del tutto attendibili. È realistica la cifra della metà del corpo docente, diviso in CGIL-CISL-UIL e vari sindacati autonomi? Ciò che conta è che ai Sindacati la riforma della professione non interessa, muovendo dal totale rifiuto delle carriere e del differenziamento degli stipendi.

Nella visione del mondo dei sindacati regna l’egualitarismo assoluto; l’unica differenza teorizzata è l’anzianità. Più sei anziano, più guadagni. Amministrazione e Sindacati si oppongono alla definizione di un nuovo modello di docente. E la politica? È come l’intendenza: viene dietro all’Amministrazione e ai sindacati.

Per una Scuola nazionale di formazione dei docenti

Eppure, il profilo della professione docente adeguata al tempo presente non ha bisogno di raffinate elaborazioni. È già stato detto tutto, da molto tempo. In primo luogo, serve una Scuola nazionale di formazione degli insegnanti.

A questa aveva già pensato Napoleone con un decreto del 18 ottobre 1810 che istituiva una Scuola Normale, stabilita a Pisa – che faceva parte come l’intera Toscana dell’Impero francese fin dal 1807 – con il compito di formare insegnanti di scuola media superiore che educassero i cittadini secondo norme didattiche e metodologiche coerenti.

Che un laureato si trasformi in un docente, con capacità educative e didattiche adeguate, frequentando corsi universitari specializzati è una… leggenda interessata delle Università.
La formazione del futuro docente deve incominciare già dopo il terzo anno di Università, con periodi di apprendistato/tutorato nelle scuole. Il titolo finale di laurea deve essere la risultante del giudizio universitario e di quello delle scuole dove il laureando ha fatto esperienza, nel corso dei due anni finali della laurea magistrale. Le competenze educative e didattiche – la vocazione – si possono costruire e far emergere solo sul campo.

Non sono le Università, ma le scuole il terreno di formazione e di selezione dei docenti. L’esistenza di una Scuola nazionale di formazione dei docenti renderebbe inutili i concorsi nazionali, tanto amati da Cassese, la cui ratio “nazionale” consiste nella necessità di assicurare l’omogeneità, ma la cui inaffidabilità e inefficacia sono note.

Chi assume? La singola scuola autonoma. Senza questo potere di assunzione, l’autonomia educativa e didattica, di cui al Decreto n. 275 dell’8 marzo 1999, è ridotta a formula vuota.

E la carriera? Da qualche decennio vaga nell’aria la ragionevole proposta di tre step: iniziale, ordinario, esperto.

Parrebbe tutto molto semplice. Falso. Perché su questa faccenda si accumulano tutti i tic ideologici della Destra e della Sinistra.

Per la Destra contano la Nazione, la Patria. Peccato che, alla fine, questi due nobili lemmi si traducano in Stato burocratico-centralistico. Ne consegue una gestione del personale identica che vale allo stesso modo per la Scuola, per l’INPS, per i Ministeri… Per la Sinistra conta l’eguaglianza, in forza della quale nessuno – né discente né docente – può fare un passo in avanti, sennò crea diseguaglianza. Meglio che tutti stiano fermi. Eppure che nessuno sia lasciato indietro non è una buona ragione per cui tutti stiano fermi ad aspettare. Vale per gli alunni, vale per i loro insegnanti.

Il puzzle di tutti questi tic ideologici produce immobilità. E qui stiamo da qualche decennio.

E il discorso sulla riforma? Direbbe Shakespeare: “… un racconto narrato da un idiota, pieno di strepiti e furore, significante niente.”

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