COSE DELL'ALTRO MONDO

Riccardo Cristiano

Giornalista e scrittore

La protesta libanese e l’intramontabilità del sinodo del ‘95

Il Libano non può dimenticare la lezione sinodale. Quando Giovanni Paolo II convocò il sinodo speciale per il Libano, il Paese era in condizioni drammatiche. Il 1991 segnava infatti la fine del conflitto che per tre lustri aveva devastato il Paese, contrapponendo milizie armate e confessionali nelle strade di tutti le città libanesi. Ne usciva un Libano devastato, al quale quell’assemblea propose una strada nuova. Di lì a breve l’invito a prendere parte ai lavori sinodali venne recapitato ai leader religiosi di tutte le altre comunità libanesi. Un’occasione che nonostante diffuse resistenze i libanesi seppero non perdere. Nel 1995, quando i lavori ebbero inizio, c’erano tutti nella grande aula sinodale. L’Instrumentum Laboris conteneva delle affermazioni che il Libano attendeva da anni: “ La Chiesa ha visto con dolore i suoi figli uccidere, essere uccisi e uccidersi tra di loro”. La speranza nuova per il Libano veniva da una ritrovata fratellanza nella comune appartenenza alla cultura araba. 

Ma le scorciatoie della politica non hanno consentito a quella svolta di cambiare radicalmente il corso degli eventi. I signori della guerra rimasero i signori del salotto della politica, eppure la novità venne avvertita e produsse un primo epocale rinnovamento del discorso cristiano. Come indicò nell’esortazione apostolica post-sinodale Papa Giovanni Paolo II i cristiani infatti rinunciarono all’idea di non essere arabi, di non appartenere a quella cultura; solo riconoscendosi  a pieno titolo in essa avrebbero offerto di nuovo il grande contributo che tutto il Paese e il mondo arabo si aspettavano da loro. 

L’Ecclesia in Libano si assumeva tutto il peso di una identità scossa, lacerata, per aiutare a rammendare le ferite e ritrovare la forza di vivere insieme. Ma Ecclesia è parola troppo importante per poter essere offerta in un contesto che nega la persona, quindi il cittadino.  La politica per seguire e recepire la lezione sinodale non poteva ignorare la persona, scossa dalla guerra che aveva cancellato i diritti di ciascuno nell’appartenenza comunitaria. Fu questa idea a condurre il per mano i libanesi nella costruzione della loro loro nuova comunità: tutti arabi, tutti persone portatrici di diritti inalienabili e legati a comunità intestatarie di tutele mai negabili. Nacque così il modello libanese. 

Oggi le strade di tutto il Libano scosse dalla perdita di certezze, di speranze, di visioni, si rivoltano di nuovo alla politica chiusa, identitaria, corrotta, per rivendicare i loro diritti di padri, di madri, di figli che richiedono cittadinanza. E lo fanno senza alcun ossequio nei confronti delle milizie, più o meno ufficialmente in armi, che impediscono di procedere nella costruzione del bene comune. Così il simbolo di questo Libano spaesato, confuso, indignato con una politica rimasta ferma a letture tribali, sembra proprio il nuovo vescovo maronita di Beirut. Appena eletto ha venduto tutte le auto di lusso del vescovado, poi ha chiesto a tutti gli istituti religiosi di conservare a tutti gli alunni il diritto di frequentazione dei corsi scolastici, anche se le loro famiglie non possono pagare le rette. E’ soltanto un esempio del cammino possibile verso la ricostruzione libanese, della cultura del vivere insieme. Lì intorno al vescovado i giovani che chiedono dignità e onestà sanno che quella Chiesa parlerà per loro perché ricorda la lettera a Diogneto: “I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. […] ” Come i loro fratelli i cristiani di oggi condividono la lingua, scendono in piazza nel nord e nel sud del Paese, rivendicano il loro diritto a essere riconosciuti cittadini come i sunniti che si levano contro le appartenenze identitarie nel nord e gli sciiti che fanno altrettanto nel sud. E’ la sfida del sinodo che non può tacere e che porta un messaggio universale per il mondo arabo scosso dall’urgenza di uscire dalle sue pastoie tribali.

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