La perdita della memoria di Auschwitz e l’inversione dell’Olocausto
Giovanni Cominelli
26 Novembre 2024
La perdita della memoria di Auschwitz e l’inversione dell’Olocausto
Con grande scandalo intellettuale e morale delle generazioni del ‘900 e delle comunità ebraiche in Europa e nel mondo, la memoria di Auschwitz sta svanendo.
È passata nei libri di storia, nei film, nelle storie, nella letteratura, nell’immaginario collettivo delle generazioni del ‘900, ma non è entrata nella mente e nel cuore dei giovani di questo terzo Millennio.
A loro non dice più nulla. Sì, la studiano a scuola, se il mitico programma ce la fa ad arrivare fin lì. Insegnanti volenterosi li portano a fare il tour dei Lager.
Eppure gli stessi ragazzi, intervistati mentre si mobilitano nelle piazze italiane ogni sabato a favore della Palestina e di Gaza, dichiarano che gli Ebrei sono i nuovi nazisti e che i Palestinesi di Gaza sono i nuovi Ebrei.
È l’inversione dell’Olocausto. Italiani o arabi delle nostre piazze europee e americane dichiarano di non essere per nulla “antisemiti”, ma sostengono che lo Stato di Israele non ha diritto all’esistenza, perché è uno Stato coloniale e razzista.
Israele deve semplicemente sparire. Opporre a costoro la storia tragica e le categorie di “antisemitismo”, di “antisionismo”, di “pogrom”, di “genocidio” … si riduce ad una nobile, ma inefficace invettiva morale.
La fine della “rendita” morale della Shoah
Occorre prendere atto che “la rendita morale” della Shoah non è più sufficiente per sostenere le ragioni di esistenza dello Stato di Israele.
Non lo è mai stata per gli Arabi. Lo sottolineò Ben Gurion, il Padre della patria di Israele, in una famosa intervista a Nahum Goldman in “The Jewish Paradox”, pubblicata nel 1978, a cinque anni dalla morte del leader israeliano, ripresa qui un anno fa: “… C’è stato l’antisemitismo, i nazisti, Hitler, Auschwitz, ma questo è stata colpa degli Arabi? Essi vedono solo una cosa: che noi siamo arrivati qui e abbiamo rubato la loro terra. Perché dovrebbero accettarlo?”.
Auschwitz non è più fondamento sacrale e indicibile dello Stato di Israele neppure per i giovani dell’Occidente bianco. Sono antisemiti? No, sono semplicemente contrari all’esistenza di Israele. Come i loro commilitanti immigrati.
Vero è che il fondamento storico dell’esistenza dello Stato di Israele non è la Shoah, bensì il riconoscimento giuridico- internazionale degli altri Stati.
Le tappe per conquistarlo sono incominciate ben prima della Shoah: la Dichiarazione di Lord Balfour del 1917, che autorizzava l’immigrazione ebraica in Palestina; il Mandato della Società delle Nazioni del 1922, assegnato alla Gran Bretagna, che includeva il compito di facilitare l’insediamento ebraico e di creare una “dimora nazionale” in conformità con la Dichiarazione Balfour; la Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1947, che definiva un “Piano di Partizione”, cioè la divisione della Palestina in due stati: uno ebraico e uno arabo, con Gerusalemme come città internazionale sotto amministrazione ONU; la Dichiarazione d’Indipendenza di Israele del 14 maggio 1948; l’entrata di Israele nell’ONU nel 1949.
Se il fondamento ultimo degli Stati è il riconoscimento da parte degli altri Stati – oggi sono 193 – non tutti riconoscono Israele. I Paesi arabi, i più contigui territorialmente, si opposero fin dall’inizio alla proclamazione dello Stato di Israele.
A tutt’oggi non è riconosciuto da Afghanistan, Algeria, Arabia Saudita, Bangladesh, Brunei, Corea del Nord, Iraq, Iran, Kuwait, Libano, Libia, Malesia, Pakistan, Somalia, Sudan, Tunisia, Yemen. I cosiddetti “Accordi di Abramo” del 15 settembre 2020 – promossi da Trump – hanno normalizzato i rapporti con il Marocco e soprattutto con gli Emirati Arabi Uniti (Abu Dhabi, Dubai, Sharjah, Ajman, Umm al-Quwain, Fujairah, Ras al-Khaima). La Lega araba manca all’appello.
Ora, se il fondamento ultimo dell’esistenza degli Stati è il pacifico riconoscimento reciproco – almeno dalla Pace di Westfalia del 1648 in poi – non ha molto senso affrontare la questione dell’esistenza di Israele sia da parte dei sostenitori sia da parte degli oppositori con il lessico della questione ebraica del ‘900.
Se le parole sono il corpo delle idee e se le idee hanno conseguenze, parole quali “antisemitismo”, “antisionismo”, “pogrom”, di “genocidio” non hanno più un contenuto capace di generare conseguenze nella coscienza morale delle giovani generazioni.
Le condizioni del riconoscimento dello Stato di Israele
Se negli anni ’70 del ‘900 Ben Gurion continuava ad essere scettico sulla riconoscibilità da parte degli Arabi, successivamente la situazione è mutata a favore di Israele. Ma la pre-condizione è che Israele riconosca una statualità palestinese: “Due popoli, due stati”. Si può eccepire fin che si vuole circa l’esistenza di una “nazione” palestinese: si tratta certamente di “un’invenzione”. Ma questa “invenzione/costruzione” è l’unica base possibile della pace in Medioriente e della sicurezza di Israele. La politica del governo israeliano rifiuta di prenderne atto. La “via militare” non porterà lontano e non avrà mai fine. L’idea della “Grande Israele” dal Nilo all’Eufrate e la “teologia della Terra promessa” sono idee suicide per lo Stato di Israele e portano a politiche suicide.
Quanto a coloro che scendono in piazza ogni sabato, devono scegliere se vogliono buttare a mare Israele – dal Giordano al mare – o se, invece, ne riconoscono l’esistenza di Israele e di uno Stato palestinese.
Le tesi delle piazze pro-Palestina
Le piazze pro-Palestina, piene di immigrati e di ragazzi italiani, paiono propendere per la prima tesi. E importa poco se dichiarano di non essere antisemiti.
In effetti, non sono antisemiti novecenteschi, sono gli woke del Terzo millennio, cioè anti-occidentali e perciò anti-Israele. La loro posizione è quella di Hamas, di Hezbollah, degli Houthi, di Teheran: vogliono la guerra e la distruzione di Israele. E tanto basta!
Quanto al dibattito politico-culturale italiano ed europeo, ai fini della pacificazione del linguaggio e degli animi, non aiuta il ricorso alla parola “genocidio” per classificare i massacri israeliani a Gaza.
E non perché il sangue non scorra a fiumi. Dal Sudan all’Ucraina ne è già scorso molto di più. E neppure perché solo la Shoah sia da classificare come genocidio. La storia del ‘900 ne ha visti altri: in Armenia 1915-16; in Cambogia 1976-79; in Ruanda 1994; in Bosnia 1995.
La definizione fornita dal diritto internazionale di “genocidio”, quale è stata ratificata dalla “Convenzione contro il genocidio del 14 ottobre 1950”, prevede l’esistenza di un’intenzione genocida e di un progetto di distruzione di un’etnia. Non è questo il programma del governo israeliano.
La colonizzazione in corso in Cisgiordania è colonizzazione violenta, non è genocidio. A Gaza è in corso uno scontro militare con un’organizzazione armata, Hamas, che dal 7 ottobre 2023 ha causato morti, feriti, ostaggi.
Troppi? Ma non è genocidio. È la guerra. È la guerra infinita del Medioriente, di cui Teheran continua a tirare i fili. Alla quale si può porre fine solo se ciascuno riconosce all’altro il diritto all’esistenza. Gli Arabi e Teheran devono riconoscere la statualità di Israele. Israele deve riconoscere la statualità arabo-palestinese.