LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e saggista.

“La nuova vita”: tracce del cinema di Fellini nelle opere di Sorrentino e altri

Tempi duri per i registi italiani interessati al racconto o alla satira dei costumi, degenerati ben di là dalla fantasia. Ci vorrebbero Flaiano, Scarpelli, Risi per prevedere che cosa attendersi dopo il carosello grottesco culminato nelle gesta di “er Batman”, forse il “nuovo mostro” più icastico della deriva antropologica nazionale. Tuttavia il cinema ha ancora delle frecce al suo arco. Le estrae da una faretra antica e ispirata, nella quale si coniugano distacco e partecipazione, incanto e disincanto, osservazione e parodia, cronaca ed elegia, atrabile e barlumi di speranza, critica e compassione. A proiettare lontano le frecce del tempo – un ritorno al futuro? – è lo sguardo più propriamente “felliniano”, matrice e culla di visioni alfine sottratte alla malintesa “nostalgia” che per decenni si attribuì al Riminese perché il suo impegno non corrispondeva all’engagement ideologico.

A rinverdire l’afflato di Federico nel ventennale della morte, arriva La grande bellezza di Paolo Sorrentino, unico titolo italiano in concorso al Festival di Cannes, in sala dal 21 maggio. Ne è protagonista Toni Servillo, sodale di sempre del quarantatreenne regista napoletano, attorniato da un inedito Carlo Verdone drammatico, e da Sabrina Ferilli, Pamela Villoresi, Roberto Herlitzka, Isabella Ferrari… La grande bellezza s’annuncia mosaicata e ombelicata, contemplativa (con quel che di sacro l’etimo custodisce nel templum) dell’allegra depressione di un’Italia così versata per gli ossimori da mandarne uno al governo – “Mai con Berlusconi”, “Pronto, Berlusconi?” –, non prima di essersi costretta a una bimestrale pausa di irriflessione post voto. Non mancherà la dimensione profana che, appunto, s’attaglia alla città eterna, capitale dei due Stati divisi dal Tevere, e ora anche dei due papi. Chi (non) ha visto il film di Sorrentino, affabula di scene costellate di parvenu, politici, malavitosi, attori, prelati, intellettuali epigonici dello Steiner/Alain Cuny suicida nel capolavoro del 1960 – amarissima Dolce vita – che mostrava ed esorcizzava le acque reflue della Fontana di Trevi. Nel labirinto della Roma matrigna e mignotta (sì, ancora Fellini), Servillo è Jep Gambardella, scrittore sulla soglia dei pensionabili 65, esodato dalla vita più che dalla Fornero, flâneur nei salotti di dimore marmoree e licenziose o fra i resti dell’Acquedotto Claudio sull’Appia antica cara ai primi atti del Dopostoria pasoliniano (Pier Paolo e Federico furono inconsapevoli fratellini di profezia). Nelle prime foto di scena apparse sul web,  Jep/Servillo indossa una giacca rosso sciocco o di vergogna. Vermiglio è anche il manifesto del film, magari da vermicŭlus, diminutivo latino di verme.

Il copione s’inizia in un pomeriggio sul Gianicolo garibaldino e ministeriale. Un giapponese di una comitiva turistica viene stroncato da un infarto, col contrappunto di un “soave” vocalizzo, I Lie del californiano David Lang. Alla base della scultura del condottiero nizzardo (siamo l’unico paese al mondo con l’eroe nato all’estero) si legge “Roma o morte”. Ma è subito chiaro che l’aut aut è soppiantato dall’et et di un sincretismo occasionale  e distratto, ancorché quotidiano.  Roma e morte, dunque. La guida turistica esclama: “Ahò, qua m’è morto l’asiatico”. “L’ultima immagine è per Roma, lì dietro, ferma e assolata, monumentale e bellissima. E insensibile”. Nel “vuoto” di senso lo sguardo non vaga, invece si concentra, secondo i suggerimenti sciamanici di Elemire Zolla e dello stesso Fellini. Trascendere dalla ricerca di un punto fisso, girovagare, distrarsi, scantonare, aiuta a concretare i contorni del mondo: This must be the place. Questo dev’essere il posto, tra realtà e finzione come in Reality di Matteo Garrone, a Cannes l’anno scorso, con la fluidità “aerea” della macchina da presa che a sua volta ricordava senza mezzi termini La dolce vita.  Anche Ettore Scola è al lavoro per un film-omaggio a Fellini dal titolo Che strano chiamarsi Federico, ovvero, sapessi com’è strano, per ogni italiano, scoprirsi romano.  

 Articolo apparso su “Film Tv”, n. 21 – 26 maggio/1 giugno 2013

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