LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e saggista.

“La grande bellezza” dell’Italia triste. Sorrentino vince il Golden Globe

“La grande bellezza” di Paolo Sorrentino ha vinto ieri sera a Los Angeles (l’alba di oggi in Italia) il Golden Globe per il miglior film straniero. Non accadeva dal 1989, con “Nuovo cinema Paradiso” di Giuseppe Tornatore, che un italiano si imponesse ai premi della stampa estera a Hollywood, considerati un viatico nel viaggio verso gli Oscar in calendario il prossimo 2 marzo. E giovedì 16 gennaio verranno rese note le cinquine dell’Oscar, in cui con ogni probabilità “La grande bellezza” figurerà. Sorrentino negli USA ha  girato “This Must Be the Place” con Sean Penn (2011), ma, certo, a propiziare il successo internazionale di “La grande bellezza” – definito dal New York Times “una metafora del declino italiano” – è anche il sostrato felliniano del film. Nella cerimonia dei “Golden Globes”, dove era affiancato sul palco dal produttore Nicola Giuliano (Indigo Film), il regista napoletano ha ringraziato l’Italia “pazza, ma bellissima”. Una riprova?  Oltre mezzo secolo fa l’Italia conquistò il mondo con “La dolce vita”, titolo ironico e assai equivocato di un film amarissimo sulle stagioni del boom, mentre oggi viene riconosciuta nella luce di un altro paradosso: il fascino di un Paese stanco, malinconico e decadente. Eppure a volte il riscatto può nutrirsi di un malinteso: tristezza è bellezza? Intanto complimenti a Sorrentino, ai suoi produttori, al protagonista Toni Servillo. Riproponiamo di seguito la recensione del film apparsa nel maggio 2013 quando venne presentato in anteprima al Festival di Cannes, con il titolo “Nel naufragio italiano, l’unica ‘salvezza’ sull’isola dell’infanzia. Il nuovo film di Sorrentino”.

«Sa perché mangio solo radici?». «No, perché?». «Perché le radici sono importanti». Lo rivela una suora missionaria e ascetica – chiamata «la santa» e prossima ai 104 anni – a Jep Gambardella (Toni Servillo), il protagonista del film di Paolo Sorrentino,  in concorso al Festival di Cannes. Jep ha appena compiuto 65 anni ed è uno scrittore rinunciatario, un giornalista benestante e pigro, un viveur insonne e disincantato, disilluso, disamorato di tutto. I due sono sulla terrazza della casa di Jep prospiciente il Colosseo, dove all’alba fa sosta uno stormo di fenicotteri durante la migrazione verso Sud. E in favore di un ritorno al Sud si determina anche Jep/Servillo.

Per sfuggire al naufragio annunciato, e, anzi, in corso, ovvero a un semi-galleggiamento cadaverico come quello della nave Concordia all’Isola del Giglio appena visitata (aggiornamento del «mostro marino» nel finale di La dolce vita), il Nostro si sottrae all’ammaliante e ipnotica «grande bellezza» di Roma. S’imbarca verso l’isola dell’infanzia dominata da un faro sugli scogli. Là è custodito il copione segreto e rimosso dello stupore al momento del primo contatto concesso e subito negato da una ragazzina, un istante chiaroscurale che la vita ha poi messo del tutto in ombra. Là è vivida un’altra e più radicale «grande bellezza»: l’archetipo contemplativo che ha impedito a Jep di riuscire ad andare oltre il giovanile romanzo d’esordio, seppur fortunato. Là la malia di guardare il mondo senza agire può finalmente essere sfatata, forse.

Infanzia e sogno (spesso ad occhi aperti) costituiscono la materia prima, propriamente felliniana, di quest’opera del regista napoletano, classe 1970, che giusto Cannes consacrò nel 2008 grazie a Il divo, in cui è trasfigurata la storia italiana nella parodia feroce e umanissima di Andreotti. Sorrentino ha stile, cioè ha occhio: uno sguardo acuminato sia per il dettaglio sia per l’affresco. E sa cogliere il grottesco che da almeno mezzo secolo in qua è il carattere italiano per eccellenza. In La grande bellezza ripercorre i passi dello svogliato giornalista provinciale Marcello Mastroianni (La dolce vita di Federico Fellini, 1960), mostrando quanto sia peggiorato il «diabete» di un Paese che da troppo tempo assume il dolce per nascondere l’amaro. È questa l’autentica «ideologia italiana» di rado diagnosticata, ovvero un aggravamento del «virus dannunziano» – tra esibizionismo, narcisismo e onanismo – che il fascismo rese evidente (come Fellini annotò in Amarcord alla faccia di chi lo considera un film nostalgico).

Sorrentino è un rabdomante dell’agonia tricolore che si estenua tra feste freneticamente disperate con «trenini che non vanno da nessuna parte», nobili decaduti, turisti giapponesi, belle ragazze che invecchiano, prelati più interessati a Masterchef che al Paradiso, cascami di stagioni «impegnate». Nella Roma dove tutto muore eppure non muore, come i resti dell’Acquedotto Claudio o le magnifiche statue nascoste nei palazzi principeschi, c’è chi coltiva l’arte di battere la testa contro i muri per dare spettacolo. Roma degli zombie e delle rovine – intuì Fellini – è stigma e metafora della modernità.

Visionario quanto basta, lo struggente viaggio di Sorrentino nell’euforica decomposizione nazionale è assecondato da uno straordinario Servillo, cui fanno «da spalla» di volta in volta eccellenti interpreti (Verdone, Ferilli, Ranzi, Ferrari, Forte, Herlitzka). Ma in vista del finale, diciamo l’ultima mezz’ora, i simboli si accumulano e si affastellano, la necessità di chiudere tutti i conti appesantisce un po’ il racconto e La grande bellezza rischia di mandare a casa lo spettatore col sospetto che sia un film per certi versi «programmatico». Laddove la grazia e il genio di Fellini stavano invece nella pura anarchia narrativa, nelle domande senza risposta, nel sensuale candore delle parole di Paolina sulla spiaggia mai colte da Marcello, perse per sempre tra il vento e il nulla.

(Articolo pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 22 maggio 2013)

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