Quando, il 7 dicembre 1965, fu pubblicata la costituzione apostolica Gaudium et Spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo tutti lessero già nelle sue prime righe cosa avesse guidato i padri conciliari : “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. […] Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia. Per questo il Concilio Vaticano II, avendo penetrato più a fondo il mistero della Chiesa, non esita ora a rivolgere la sua parola non più ai soli figli della Chiesa e a tutti coloro che invocano il nome di Cristo, ma a tutti gli uomini.”
Non è difficile cogliere il nesso profondo ed esplicito della Dichiarazione sulla Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune. In questo documento, firmato ad Abu Dhabi il 4 febbraio scorso, Bergoglio e al-Tayyeb spiegano di aver “condiviso le gioie, le tristezze e i problemi del mondo contemporaneo, al livello del progresso scientifico e tecnico, delle conquiste terapeutiche, dell’era digitale, dei mass media, delle comunicazioni; al livello della povertà, delle guerre e delle afflizioni di tanti fratelli e sorelle in diverse parti del mondo, a causa della corsa agli armamenti, delle ingiustizie sociali, della corruzione, delle disuguaglianze, del degrado morale, del terrorismo, della discriminazione, dell’estremismo e di tanti altri motivi. Da questi fraterni e sinceri confronti, che abbiamo avuto, e dall’incontro pieno di speranza in un futuro luminoso per tutti gli esseri umani, è nata l’idea di questo Documento sulla Fratellanza Umana. Un documento ragionato con sincerità e serietà per essere una dichiarazione comune di buone e leali volontà, tale da invitare tutte le persone che portano nel cuore la fede in Dio e la fede nella fratellanza umana a unirsi e a lavorare insieme, affinché esso diventi una guida per le nuove generazioni verso la cultura del reciproco rispetto, nella comprensione della grande grazia divina che rende tutti gli esseri umani fratelli.”
Sta qui, con ogni evidenza, il punto d’inizio del nuovo viaggio apostolico di Papa Francesco in Marocco, un paese “arabo” ma non solo di arabi, essendo i berberi popolazione autoctona, un paese “africano” rientrato dopo 33 anni nell’Unione Africana senza ancora aver risolto la questione Sahrawi ma profondamente africano, quanto la questione migratoria, ma soprattutto un paese che grazie all’iniziativa di re Mohammad VI ha dimostrato di aver capito la lezione araba del 2011, avviando non repressione feroce ma un processo di democratizzazione costituzionale che tra le altre cose ha finalmente riconosciuto il berbero come seconda lingua ufficiale, aperto due televisioni che trasmettono in berbero. Da allora in Marocco governa chi vince, cioè un partito cosiddetto “islamico-moderato”, emerso fortissimo proprio dopo il 2011, in coalizione con diversi altri partiti. Lo chiamano il “makhzen”, cioè il governo del sultano, anche per il ruolo predominante che nell’esecutivo nato nel 2017 hanno i tecnocrati graditi alla corona, formato dopo sei mesi di negoziati con altri cinque partiti benché gli islamisti “moderati” del Pjd avessero un’ampia maggioranza. I tecnocrati cari alla corona vi controllano interni, esteri e dicasteri economici. Un governo “di palazzo”? Dipende dal metro che si usa: un sogno democratico se prendessimo a metro quello Paesi dei vicini, soprattutto la rivale Algeria o “l’autorevole” Egitto . Il governo di un Paese che non è caduto nella rete del totalitarismo, ma che come gli altri affronta la minaccia terrorista, e il recente tremendo atto terroristico contro due turiste lo conferma, come lo conferma il problema dei marocchini arruolatisi con l’Isis. Ma conferma che a differenza di altri paesi il Marocco non ha pensato di affrontare il dopo-2011 con la dittatura militare, bensì con le riforme e una timida democratizzazione. Dunque Papa Francesco non sta per recarsi nell’Egitto del generale al-Sisi, nell’Algeria dei generali alla ricerca di un nuovo Boutaflika, no, sta per recarsi in un Marocco presidiato dalla polizia ma non sottoposto a un governo di polizia. I suoi problemi sono la corruzione e la questione socioeconomica. Tra i nodi da sciogliere anche l’antico titolo del re, “Comandante dei fedeli”, che gli attribuisce la responsabilità suprema delle politiche religiose; anche questa ambiguità andrà sciolta e superata, perché la liberalità religiosa si costruisce, si raggiunge, e siccome la libertà religiosa è la madre delle altre libertà è difficile pensare che una società impoverita e non inserita in un circuito di fratellanza con i suoi vicini possa trovare in sé la forza per diventare liberale e non illiberale, come la rabbia o la desolazione spesso favoriscono.
In definitiva portare la fratellanza anche in questo Marocco, che rimane come sempre a poche miglia dalla Spagna ma che le politiche migratorie europee rischiano di allontanare ulteriormente, vuol dire portarla in un Paese che appare la sintesi, importante e peculiare, delle principali problematiche arabe e africane, davanti alle quali evidentemente si pone la Dichiarazione, che sa essere sia stimolo sia riconoscimento.
Il Marocco oggi si fregia di alcuni passi importanti, come l’abolizione del reato di apostasia, che era passibile di pena di morte, e la costituzione di una scuola per imam improntata a spirito “ermeneutico”, quindi moderno e non intollerante, così rilevante da aver spinto la Francia a inviare lì molti dei suoi futuri imam per formarli secondo criteri non oscurantisti. Il suo “islam profondo” si richiama a tradizioni peculiari, le confraternite sufi, la cui stagione novecentesca è stata segnata da ignoranza e auto-affermazione degli ulama, che imponevano sé stessi al “popolino” usando la forza del richiamo a Dio. Il viaggio dunque rappresenta un’occasione molto importante anche se la comunità cristiana è fatta da pochi stranieri. Le sfide che affronta il Marocco sono le sfide del sud del mondo, così care a Papa Francesco, il primo papa che viene dal sud del mondo: migrazioni, povertà, integrazione economica: passa di qui la nascita di un islam illuminato, e questa visita riconosce al parziale modello marocchino, l’unico ad aver capito la lezione del 2011, non solo il merito di averla capita, ma anche il dovere di proseguire nella comprensione. Il papa ci va perché, come i padri conciliari, vuole conoscere “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi”, e contribuire a farne dei fratelli.