La distribuzione della popolazione in fasce d’età – che in qualsiasi Paese normale assomiglia ad una botte – nel Mezzogiorno d’Italia si è ormai trasformata in una clessidra: tanti anziani; un buon numero di bambini che scalpitano per andare via non appena diventano adolescenti; e sempre meno giovani, perché se dal Nord Italia a fuggire sono i cervelli, dal Sud sta emigrando un’intera generazione.
Meno giovani e, dunque, meno imprese, ricercatori e professionisti che possano sostenere quel processo di innovazione di cui qualsiasi territorio ha bisogno per uscire dalla trappola del sotto sviluppo. Questo è il tratto più nuovo e marcato che l’antica questione meridionale ha acquisito negli ultimi anni, nonché il problema più grosso che deve essere risolto da chiunque voglia provare a spezzare l’incantesimo di un ritardo che dura da un secolo.
Enrico Letta e Carlo Trigilia sanno, per esperienza, quanto è alta la posta in gioco e sanno che la partita va giocataimmediatamente: entro l’estate la Commissione Europeachiede aciascuna Regione una prima ipotesi di strategia che identifichi i vantaggi competitivi sui quali fare leva perprovare a rientrare in quell’economia globale,dalla quale il Mezzogiorno è rimasto tagliato fuori per molto tempo. Queste scelte sonocondizione ineludibile per accedere ai fondi strutturali che sono parte consistente delle poche risorse pubbliche che l’Italia ha a disposizione per ottenere quella crescita che tutti invocano. Si tratta davvero – mentre l’ISTAT segnala che per il settimo trimestre consecutivo il PIL del Paese si è ridotto – dell’ultimo treno e di una priorità che deve entrare immediatamente tra quelle dei primi cento giorni di un Governo che è in carica da circa un mese: un nuovo fallimento significherebbe non solo buttare via le ultime carte che il Sud (e l’Italia) ha ancora in mano, ma anche trasformare in lamentela qualsiasi richiesta italiana di ulteriori investimenti da destinare alla crescita.
Il problema vero è trovare una strategia per rispondere a tre domande urgenti: come faccio ad investire più di 22 miliardi di euro in innovazione in territori desertificati dall’emigrazione di buona parte delle proprie generazioni più giovani? Come posso radicare nel territorio le tecnologie, le competenze che riuscissi ad attrarre evitando l’incubo di nuove cattedrali nel deserto? Come posso governare strategie di sviluppo più sofisticate rispetto al passato, con amministrazioni pubbliche che si sono, finora, dimostrate incapaci di gestire persino la spesa ordinaria?
È evidente che il Sud non ce la può fare da solo. Ma non tanto perché mancano le risorse finanziarie, ma perché, in questo momento, è sprovvisto del capitale umano indispensabile per poter competere. Anzi, di talento ne continua a produrre; ma non riesce a trattenerlo, non lo attrae e se lo attrae – magari dai Paesi del Nord Africa – non riesce neppure a riconoscerlo. Non c’è capitale umano e neppure possiamo aspettare i tempi lunghi della scuola per poterne ricostruire a sufficienza.
E allora che fare? Bisognerà ricominciare a fare scelte: scegliere i settori sui quali concentrare le risorse: la valorizzazione della cultura è candidato naturale per un’area che ha quasi lo stesso numero di siti UNESCO degli interi Stati Uniti; e scegliere i problemi – magari quelli della mobilità o dei rifiuti nelle città – ai quali applicare specifiche tecnologie per trasformare i ritardi in vantaggi rispetto agli altri in termini di qualità della vita. Sarà necessario, poi, aggregare dal resto del mondo attorno alle “specializzazioni intelligenti” che avremo selezionato, i talenti di cui è necessario disporre; costruirei presupposti – servizi, logistica, scuole (e non solo benefici fiscali generici) – che mettano gli innovatori in grado di continuare a fare il proprio mestiere anche a Salerno o a Bari; e infine sviluppare- dalle imprese e dalle università che avremo portato all’avanguardia – l’indotto sufficiente per poter radicare la conoscenza nel resto del territorio.
Bisognerà puntare tutto sulla conoscenza,la benzina che ha dato ad altri Paesi la possibilità di sfuggire alla condanna della dipendenza dal sussidio; la conoscenza che in Italia e nel Sud, per lungo tempo, è uscita dalle priorità della politica, del discorso pubblico e della programmazione economica. Facendo scelte precise per costruire esempi in grado di diventare modello. Con persone, meccanismi di governo anch’essi profondamente rinnovati sulla base della capacità di portare a casa risultati tangibili, perché è tra i dirigenti ed i consulenti che hanno fallito per anni che bisogna operare la più urgente delle rottamazioni.
Quella del Sud è una sfida che l’Italia è riuscita – unico Paese del mondo – a perdere regolarmente ogni volta. Stavolta, la crisi costringe il governo ad affrontarla per vincere e non con la mentalità di chi si limita a gestire l’ordinario per alleviare le conseguenze di un’altra delle tante sconfitte annunciate e accettate sin dall’inizio.
Articolo pubblicato su Il Mattino del 18 Maggio