Una questione che mi sta particolarmente a cuore è quella concernente il ruolo dell’uomo di cultura o intellettuale. Soprattutto oggi e in Italia. La domanda che mi pongo è questa: come è giusto stare nello spazio pubblico, ammesso e non concesso che ci si voglia stare? Ovviamente, mi rendo conto che, per dare una parziale risposta ad essa, bisogna porsi anche la domanda su cosa sia propriamente la cultura. E in effetti io, nel mio piccolo e con i miei limiti, lo faccio continuamente, come si può vedere con facilità nei miei sparsi e quasi clandestini scritti. Una sottospecie di queste questioni riguarda poi senza dubbio la filosofia. Ed è una domanda che in molti si stanno ponendo, anche perché le accademie e i partiti, le due istituzioni in cui nel secondo dopoguerra i filosofi avevano potuto esercitare con più influenza il loro magistero, sono rispettivamente in forte crisi e spariti. Sono problemi che si è posto, in maniera semplice e efficace, Roberto Esposito qualche giorno fa su “Repubblica”, per la precisione lunedì 26 agosto, in un articolo intitolato “Il marketing dei filosofi pop” (http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/08/26/il-marketing-dei-filosofi-pop.html). In esso egli ha individuato anche, mi pare, una possibile “via di uscita” (non la sua però) nella cosiddetta “popsophia”, cioè in una filosofia applicata a quel vasto e vario mondo dei “prodotti culturali” più o meno di massa che la nostra epoca, che non è solo come si dice della globalizzazione economica ma anche di quella della comunicazione, ci pone innanzi in maniera copiosa, pervasiva e quotidiana (il testo di riferimento per capire cosa è la popsophia è a cura di Simone Regazzoni: Pop Filosofia, Il Nuovo Melangolo 2010; nelle scorse settimane l’associazione che porta il nome della disciplina ha organizzato, sotto la direzione artistica di Lucrezia Ercoli, due importanti festival a Pesaro e a Tolentino: www.popsophia.it) ..
Ecco, io ritengo che il problema vada impostato nei termini più generali dei rapporti della filosofia con la quotidianità. La quale è e deve essere il materiale su cui essa si esercita. Anche se, sia beninteso, con la sua specificità e il suo metodo di analisi (che, sono d’accordo, con Esposito non va ibridato o diluito ma confrontato con gli altri). Bene, la quotidianità non è solo e non è tanto un oggetto possibile da sottoporre al metodo filosofico, ma è diventato in qualche modo il tema per antonomasia di essa dopo la fine dell’epoca della Metafisica. Ora, uno dei filosofi che ha più spinto in questa direzione, che io chiamerei della laicizzazione e secolarizzazione della filosofia (e quindi della figura del filosofo a cui è assurdo continuare ad assegnare compiti o funzioni di tipo vagamente salvifico), è stato senza dubbio Benedetto Croce, l’autore la cui metodologia di pensiero ispira, in modo ovviamente non acritico né semplicemente filologico, queste note. Lo ha fatto non solo con la sua concreta attività, che si è svolta in un orizzonte larghissimo, quasi “enciclopedico” (direi secondo un ideale di “sistema del sapere” di tipo settecentesco), ma anche teorizzando esplicitamente sul tema.
A tal proposito, ritengo opportuno portare all’attenzione dei lettori le riflessioni che Croce affida, dopo un serrato ragionamento sulla filosofia nell’epoca post-metafisica, alle pagine della Teoria e storia ella storiografia pubblicata da Laterza nel 1917 (ma l’opera era già uscita in tedesco due anni prima, in una collana dell’editore Mohr sui concetti della filosofia). Egli, dopo aver elaborato le linee del nuovo concetto di filosofia come “metodologia della storiografia”, osserva che sono almeno sei i pregiudizi da superare in quanto legati alla vecchia fase della storia della filosofia, in particolar modo alla concezione scolastica e teologica affermatasi nel medioevo e conservatasi seppur in un orizzonte laico anche nella prima età moderna. Questi preconcetti hanno finito per delineare un’immagine quasi sacrale della disciplina e, in conseguenza, del filosofo, che non è davvero più proponibile. Questi sei pregiudizi sono, per Croce, i seguenti: 1) “l’ammissione, ancora assai comune, di un problema fondamentale della filosofia”; 2) la tendenza “a spregiare la distinzione per l’unità, conformandosi … al concetto teologico, che tutte le distinzioni si unificano sommergendosi in Dio, e nell’atteggiamento religioso, che nella visione di Dio dimentica il mondo e le sue necessità”; 3) la tendenza che “va ancora in cerca della filosofia definitiva: non ammaestrata dalla storica esperienza, che prova come nessuna filosofia sia stata mai definitiva ossia abbia posto termine al pensare”; 4) il pregiudizio che considera “la figura del filosofo, quasi Buddho o ‘risvegliato’, che si pone superiore agli altri (e a se stesso, nei momenti nei quali non è filosofo), perché, mercé la filosofia, si tiene ormai liberato dalle umane illusioni, passioni e agitazioni”; 5) il modo di procedere “che gli studiosi di filosofia si sogliono dare e che consiste nel frugare quasi esclusivamente i libri dei filosofi ‘in generale’, dei sistematori della metafisica: così come il dotto in teologia si formava sui testi sacri”; 6) infine, la convinzione che l’esposizione della filosofia debba avere “ora la forma architettonica, quasi di un tempio consacrato all’Eterno, ora quella calorosa e poetica, quasi di un inno o salmo cantato all’Eterno”.
Quando gli uomini non conoscevano le particelle elementari , i quanti di energia, l’espansione dell’universo ed i concetti di spazio, di tempo, di infinitamente complesso, di limiti irraggiungibili, allora si arrovellavano con ragionamenti discutibili all’infinito. Ora gli argomenti seri devono essere verificati e comprovati. Ma questo nulla toglie alla filosofia che è una imprescindibile forma culturale come la Storia, anche quella dell’Arte ed ogni altra conoscenza come la linguistica ecc.Anche la Cultura non ha limiti se ci si vuole sentire parte consapevole di ciò che ci circonda e continuare a chiedersi il perché.
Oggi il quotidiano è sempre più immerso nel robotismo (le macchine sottraggono sempre più spazi umani nel mentre stesso che li agevolano) e molto probabilmente ci incamminiamo verso ciò che si vede nel film “Elysium”. Per essere arrivati fin qui devono pur esserci ragioni matriciali dotate di effetti a cascata ad esse conseguenti. Quali queste ragioni e scelte? Non si tratta di baloccarsi con ‘ fondamenti filosofici’ come giustamente rimarcava Croce e con quali si sono a lungo baloccati i pensatori scolastici a partire da Duns Scoto (ma non Tommaso d’Aquino per il quale fede ed eternità non sono mai statti assiomi astratti ma escavazioni storicamente acquisite…) ma di rifarsi alla topica del pensare,ossia alle matrici generatrici di vita umana piuttosto che distrarsi nelle banalità dello schow§business.O no?