Un fantasma si aggira per l’Europa e sembra essersi comodamente sistemato in Italia a dominare il dibattito politico tra quello che resta della Destra e della Sinistra. Il fantasma, oggi come centocinquanta anni fa quando veniva avvistato da Carlo Marx, è lo spettro di una ideologia che, in questo caso, riduce tutti i problemi di una crisi spaventosa alla scelta che devono fare i governi tra crescita e rigore. Come se queste fossero le direzioni inesorabilmente opposte tra le quali scegliere di tirare un’economia europea che questi ragionamenti trattano come se fosse una coperta corta. Del resto, lo stesso posizionamento del governo di Enrico Letta si sostanzierebbe, secondo molti, in uno spostamento del nuovo esecutivo rispetto a quello vecchio, lungo l’asse tra i due estremi dello sviluppo (indispensabile per i governi del Sud Europa) rispetto all’equilibrio dei conti che la Germania continua ad esigere.
Il problema di questa lettura della situazione è che essa si basa su un’illusione ottica che rischia di far prendere – a chi deve decidere – abbagli che possono costare assai cari. Anche se un giovane statista come Letta è troppo pragmatico per non sapere che l’aritmetica non consente certe semplificazioni.
In effetti la letteratura scientifica, i numeri e, persino, il buon senso dicono che la coppia austerità pubblica e crescita della ricchezza (non solo economica) può perfettamente produrre tutte e quattro le combinazioni possibili tra i due termini: ci può essere la prima senza la seconda e viceversa; ma anche il caso di un’economia – come quella di un qualsiasi Paese che esce da una guerra – che cresce risanando i disavanzi del proprio Governo; infine, l’Italia degli ultimi vent’anni offre un esempio di come ulteriore crescita della spesa e del debito pubblico possono coesistere con la stagnazione.
La convinzione che dalla recessione si esca con robuste iniezioni di investimenti pubblici risale alla lezione di Keynes. Eppure anche il grande economista di Cambridge riconoscerebbe che “nel lungo periodo tutte le teorie sono morte” se non sono riferite al periodo nel quale esse sono state concepite. “Scavare buche e riempirle” fu possibile a Roosevelt negli anni trenta, in un Paese nel quale la spesa pubblica rispetto al PIL era inferiore al 15% e che, soprattutto, aveva bisogno di quasi tutte le infrastrutture per diventare la prima potenza industriale moderna. Negli anni novanta, invece, in Giappone robuste iniezioni di investimenti pubblici hanno ottenuto solo l’effetto di portare il debito pubblico a livelli mai visti nella storia e a rendere l’economia nipponica estremamente vulnerabile: anche perché se oggi uno Stato decide di costruire una diga, è molto più probabile – rispetto agli anni trenta – che siano imprese e lavoratori stranieri che beneficino dell’appalto.
Se anche ciò fosse possibile (e in Europa non lo è), non basta più aumentare la spesa pubblica per ottenere crescita. E allora la strada per uscire dalla crisi è completamente diversa. Più difficile, sofisticata, perché più che aumentare la dimensione del Leviatano, bisogna rendere molto più produttiva la sua presenza.
Del resto, si può riuscire nel miracolo di ridurre la spesa e produrre maggiore ricchezza: ad esempio, se lo Stato si rassegnasse a non poter presidiare territori il cui controllo richiede risorse e competenze che non ci sono più, avremmo in alcuni casi – come la gestione dei musei – un alleggerimento del bilancio pubblico e contemporaneamente più fatturato e occupazione.
In maniera simile, non è altresì scontato l’effetto delle tasse: a volte un loro aumento può produrre, persino, crescita se viene scoraggiato un consumo – come quello della benzina – che può appesantire la bilancia commerciale del Paese e rallentare l’innovazione; altre volte una nuova tassa non riesce neppure ad aumentare le entrate tributarie quando – è successo in Francia con le aliquote del 75% sui super ricchi – esse producono una fuga dei contribuenti che voglio tassare.
Non bastano i ragionamenti sui grandi aggregati. E ancora più male fa la retorica. Entrambe servono, semmai, per nascondere le questioni vere.
Non può crescere un Paese che, tuttora, dopo tante riforme, spende in pensioni, cioè nel passato, quattro volte di più, che non in educazione, cioè nel futuro; il 17% del PIL contro il 12% della Germania, laddove da noi la percentuale di anziani che vivono in povertà è del 50% superiore a quella registrata tra i tedeschi. E non ha senso continuare a spendere tonnellate di capitale politico in revisioni della spesa destinate a restare marginali, se – prima ancora di provare a modificarlo – non riusciamo neppure ad estendere l’articolo 18 al pubblico impiego, rendendo così la carriera dei dipendenti pubblici legata alla loro effettiva utilità e prestazione.
Che la coperta sia corta è l’illusione diffusa da economisti tristi che si cibano di modelli e la scusa per rimandare i cambiamenti. Di cui sono prigionieri gli avvocati della crescita. Così come gli apostoli del rigore.
Il buon senso ed i numeri dicono, invece, che prima ancora di stabilire in astratto di quanto spendere, è indispensabile spostare le risorse laddove meglio si moltiplicano in crescita e creare i meccanismi attraverso i quali ci sia qualcuno che risponda del risultato ottenuto con i soldi dei contribuenti. Ed è questo il cambio di paradigma di cui l’Europa e l’Italia hanno bisogno.
Ci vuole visione e pragmatismo per conquistare consenso al cambiamento: è questa la vera sfida che aspetta il primo presidente del consiglio italiano che si è laureato lo stesso anno che ha visto crollare il muro delle ideologie.
Articolo pubblicato su Il Messaggero e Il Mattino del 4 Maggio
Mi pareva un inizio interessante.. ma le conclusioni mi hanno deluso… anche le proposte in alcune parti mi sembrano marginali anche se diverse da quelle sfornate dai nostri governi. Il paradigma va cambiato, senza ideologie ma con idee concrete (siamo d’accordo), che propongono un cambiamento graduale ma anche radicale. Penso alla proposta teorica e concreta di C. Felber, del concetto di policentrismo del Premio Nobel Olson..
Cara Donatella,
grazie ma
1) sarebbe utile che aldilà del “voto” ci aiutassi a capire cosa tu (e non Olson o Felber) avrebbe argomentato nelle conclusioni; peraltro ciò sarebbe utile per capire in che maniera, secondo te e a “parole tue” dovrebbe cambiare il “paradigma” (parola che devo confessare trovo – come ho detto ad un caro amico – un tantinello nuvolosa)
2) non mi pare del tutto marginale l’idea di far ritirare lo Stato dalla gestione dei musei ed, in generale, del turismo (laddove comunque dovrebbe garantire determinati standard di conservazione); il recupero (possibile anche in una sola legislatura) di metà del ritardo nei confronti della Francia potrebbe valere 300,000 posti di lavoro in più e un punto per cento di PIL addizionale; ma ovviamente di misure simili ce ne sono tante altre e bisogna avere solo il coraggio di dire allo Stato di fare un passo indietro (o di lato come preferisci)
Grazie Francesco