ZATTERA SCIOLTA

Giovanni Cominelli

Laurea in Filosofia nel 1968, dopo studi all'Università cattolica di Milano, alla Freie Universität di Berlino, all'Università statale di Milano. Esperto di politiche dell’istruzione. Eletto in Consiglio comunale a Milano e nel Consiglio regionale della Lombardia dal 1980 al 1990. Scrive di politiche dell’istruzione sulla Rivista “Nuova secondaria” e www.santalessandro.org, su Libertà eguale, su Mondoperaio. Ha scritto: - La caduta del vento leggero. Autobiografia di una generazione che voleva cambiare il mondo. Ed. Guerini 2008. - La scuola è finita… forse. Per insegnanti sulle tracce di sé. Ed. Guerini 2009 - Scuola: rompere il muro fra aula e vita. Ed. Guerini 2016 Ha curato i volumi collettivi: - La cittadinanza. Idee per una buona immigrazione. Ed. Franco Angeli 2004 - Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria? Ed. Guerini 2018

LA CRISI DI STRATEGIA DEL PD

Editoriale da santalessandro.org
Sabato 15 maggio 2021
Giovanni Cominelli

LA CRISI DI STRATEGIA DEL PD

Le prossime cronache politiche quotidiane ci offriranno forse una nuova puntata della triste e ostinata telenovela del corteggiamento compulsivo e fallimentare che il PD ha dedicato al M5S.
L’idea di un’alleanza con i grillini era stata infelicemente sdoganata da Bersani nel 2013, ripresa da parecchi nel PD dopo le elezioni del 2018, riproposta come strategica da Zingaretti, con al seguito l’intero PD, misticamente rilanciata dal sedicente cristiano-socialista ottocentesco Bettini – non si sa che Gesù Cristo è stato il primo leader socialista della storia?! – e fatta frettolosamente propria da Enrico Letta, che ha addirittura fatto un incontro ufficiale con il non-leader Giuseppe Conte.
Non interessa qui registrare le convulsioni peristaltiche della politica quotidiana, quanto piuttosto rispondere a una domanda elementare: perché tanta settennale ostinazione?
La prima giustificazione è stata che il M5S si è portato via abusivamente una quota di elettorato, che era di proprietà del PD stesso. E ha potuto farlo, perché il PD per primo lo ha abbandonato, inseguendo le ubbie socialisto-liberali o, peggio, liberal-democratiche di Renzi. Secondo la leggenda, gran parte dell’elettorato grillino appartiene comunque alla sinistra. Se lo ha preso il M5S, vuol dire che il M5S è di sinistra. Non ci si scappa. Certo, si tratta di una sinistra adolescente, brufolosa, con oscillazioni populiste. Che, d’altronde, anche a sinistra non sono mancate fin dal lancio delle monetine a Craxi, il 30 aprile del 1993, perpetrato dai reduci di un comizio di Occhetto, per proseguire con giustizialismo, Mani pulite, Girotondi e “Dì qualcosa di sinistra!” di Nanni Moretti. Tuttavia, diventerà adulta e, praticando una sapiente togliattiana maieutica, rimarrà comunque nel “campo largo”. Basta, appunto, statuire un’alleanza, prima tattica, poi strategica. L’alleanza tra gli eletti – cioè tra le sigle – trascinerà gli elettori.

Alla base di questa giustificazione sta un presupposto infondato: che esista un elettorato stabile, dei cui pezzi ciascuna sigla politica è proprietaria a tempo indeterminato. Tuttavia, basta dare uno sguardo alle dinamiche elettorali dell’ultimo decennio per rendersi conto della fragilità di quel presupposto. Il clamoroso “due volte nella polvere, due volte sull’altar” è valso dal 2013 per tutte le forze politiche.

Da quel presupposto derivano, a cascata, teorie delle alleanze e ipotesi di sistemi elettorali.
Poiché nessuna forza può conquistare da sola il 50%+1, bisogna fare alleanze. E poiché ciascuna sigla dispone – secondo il teorema di immobilità dell’elettorato – di un proprio portafoglio di azioni, allora si deve andare a caccia di altre sigle politiche. Non si parla direttamente all’elettorato, ma sempre per interposta alleanza e sigla. Il primato delle alleanze politiche rispetto alla costruzione di un blocco sociale porta all’importanza strategica del Centro. Il quale diventa così un campo di battaglia, ma anche un soggetto attivo, perché capace di spostare il piatto della bilancia e determinare il vincitore.
Però, per costruire un’alleanza vincente occorre che tutte le forze, anche le più piccole, abbiano uno spazio di rappresentanza. Di qui la saga italica, unica al mondo, dei sistemi elettorali perennemente cangianti, da un’elezione all’altra. Per costruire alleanze di sigle, occorre una legge elettorale proporzionale, in tutto o almeno in parte. Il Mattarellum del 1993 fu maggioritario solo al 75%. Cosi fece comodo a tutti il Porcellum del 2005, che invertì di fatto le quantità tra la quota proporzionale e quella maggioritaria, ridotta al minimo, salvo il premio finale per il vincitore. L’Italicum provò ad aumentarlo. Ma fu bocciato insieme al referendum costituzionale. Entrò allora in vigore il Rosatellum, che prevedeva, per la Camera, il 36% dei seggi assegnati con un sistema maggioritario, il 64% con un sistema proporzionale. Il “Do ut des” firmato tra PD e M5S – riduzione del numero dei parlamentari e nuova legge elettorale – ha visto onorato solo il “do” suicidario del PD, ma non il “des” del M5S. Donde la grave impasse attuale.
Perché allora Enrico Letta si è dichiarato favorevole al ritorno del Mattarellum maggioritario, nonostante la preferenza, ormai prevalente in tutte le correnti del PD, del sistema proporzionale? Perché è rimasto prigioniero della balorda idea per cui il M5S divide più o meno in competizione con il PD lo stesso elettorato di sinistra. Perciò ha pensato di ripetere lo schema politico-elettorale dell’Ulivo – con il M5S al posto della sinistra DC – durato giusto un triennio, dal 1995, quando fu concepito, al 1998, quando Prodi fu fatto cadere.
Così il PD sta diventando, al momento, solo la sigla di imbarazzo, in pieno stallo intellettuale, culturale e strategico.
Che l’intera sinistra europea si trovi in tale condizione è di scarsa consolazione.

Come uscire dallo stallo? Dare consigli, per di più non richiesti, non ci compete. Ma da osservatori non neutrali, preoccupati cioè della salute del sistema politico, possiamo azzardare qualche notazione di metodo, a margine.
La prima non è per niente originale.
Da Mark Lilla a Paul Collier a Tony Blair è stato argomentato che la politica dell’identità non è una soluzione. Non perché un’identità non sia necessaria. Di che cosa è costituita? Di tre livelli: una tavola di valori, una rete di categorie interpretative del mondo presente e futuro, una storia sociale. Se la tavola di valori è sempre quella del 1789, le categorie di lettura del mondo devono necessariamente cambiare. Continuare ad estrarle dalla storia socio-politica precedente può divenire un ostacolo.
Facciamo un esempio. Marx si era messo in testa di affidare al proletariato emergente il futuro della società e della storia, perché aveva fatto un’analisi del modo di produzione a lui contemporaneo, a partire dalla quale si era proposto non solo di redimere il proletariato dalla sua condizione di oppressione, ma di edificare un nuovo modo di produzione, più capace di sviluppare le forze produttive, perché non più impigliate, nel suo disegno, nei rapporti di produzione privatistici. La sinistra, sua erede, mentre è rimasta ambigua e rassegnata sul Leviatano-sistema capitalistico – lo tosiamo, lo incateniamo?– si è rifugiata sulla questione del lavoro come diritto sociale, come un pezzo del Welfare e basta. Continua a non farsi carico intellettualmente e perciò politicamente della produzione, che oggi vuol dire istruzione, scienza, ricerca, Intelligenza artificiale, biotecnologie, digitale… clima e sostenibilità, demografia, mentre si limita a teorizzare sul diritto al lavoro e a difendere, mediante sindacati, il lavoro che c’è, non quello che dovrà necessariamente arrivare. La conseguenza è che alla sinistra si rivolgono solo i lavoratori a reddito garantito – in gara con la Lega – in primo luogo statali, pensionati, sempre meno metalmeccanici. Il PD: un partito prigioniero di una base sociale corporativa, statalista, invecchiata biograficamente e culturalmente.
La seconda notazione-consiglio: invece di perdere tempo a studiare le mosse delle sigle politiche e le eventuali alleanze, sarebbe più utile parlare direttamente ai cittadini, provare a costruire blocchi di interessi sociali prima che blocchi di convenienze politiche. Cioè: incominciare a registrare le domande, anche perché “le domande non le decidiamo noi” (copyright di T. Blair). Nel mondo, verso il quale stiamo addentrandoci, sconvolto dai mutamenti tecnologici e dalla pandemia, dal quale emergono speranze e minacce, promesse e paure, movimenti migratori, autunni/inverni demografici, diseguaglianze relative crescenti, miliardi di esseri umani, noi compresi, siamo impauriti, aggressivi, ostili. Non sta affatto venendo avanti un mondo migliore, un’Italia migliore. Rispondere vuol dire fare politiche dello sviluppo, sganciandosi dalle corporazioni di interessi che lo frenano.
L’intreccio di quelle domande è destinato a cambiare a breve le scelte elettorali degli individui. E’ accaduto negli Usa, accade in Francia e Germania, accadrà da noi. Su tutte ne svetta una: quella di un governo capace di risolvere problemi. Questa è la missione del governo-Draghi. Un’altra missione – come pare invocare Enrico Letta – non si dà. In relazione alla missione-Draghi si decideranno le prossime elezioni. Pare che l’intero centro-destra, al netto della Meloni, riconosca questa missione come la propria. La sinistra che cosa va cercando? In nome di quale fumosa alternativa?

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