Il caso Riina Jr in Tv ricorda la vessata questione se staccare, al tempo di Moro, la spina alle Br nonché la polemica se fotografare i lager nazisti e mostrare i sopravvissuti ridotti a larve. L’imperativo per cui al Male non va data voce (che peraltro non è se non un modo per indurre chiunque ad ascoltarla) si scontra con l’equivalente esigenza di conoscere la verità. Invero altra cosa avremmo saputo delle Br senza le loro “risoluzioni” rese pubbliche e ben poco ci sarebbe giunto degli orrori nazisti senza le immagini di ecatombi di cadaveri e prigionieri ischeletriti. Nel Fedro di Platone è Socrate ad avvertire che “è giusto dire le ragioni del lupo”, ma la domanda che si è fatta oggi strada e alla quale occorre dare una risposta è questa: essendo il lupo privo di ragione, quali ragioni possono essere addotte perché se ne debbano comprendere gli atti?
Secondo una larga parte dell’opinione politica, Salvo Riina non doveva dunque trovare accesso a Porta a porta: contro anche il principio di equità che riconosce pure al più turpe reo confesso il diritto di pronunciarsi in tribunale. Tuttavia, ancorché non siano minimamente equiparabili nel rapporto di colpa dei padri, al figlio di Riina si sarebbe voluto non concedere udienza quando attenzione illimitata è stata invece prestata al figlio di Ciancimino, protagonista di una lunga stagione trascorsa sulla ribalta mediatica a propalare versioni personali su rilevanti fatti pubblici e giudiziari mentre Riina si è fermato alla rivelazione di ininfluenti particolari su vicende familiari e private.
Nel caso di Riina ha probabilmente prevalso l’anagrafe criminale di don Totò rispetto a quella di don Vito, anche circa le divergenze che la sua efferatezza ha determinato tra favorevoli e contrari all’intervista televisiva. Di modo che abbiamo assistito al ripetersi di quanto Leonardo Sciascia, in L’affaire Moro, imputava al sensazionalismo dei giornali quando pubblicarono una lettera dello statista ucciso intesa a sbugiardare il collega di partito Taviani: “Evidentemente il gusto di dar documento di un così drammatico dissidio in casa democristiana è superiore al ritegno censorio che per senso dello Stato i giornali dicono di essersi imposto”. Un’antitesi quella tra “gusto di dar documento” e “ritegno censorio” che, nella piena della polemica sulla sordina da mettere alle Br e sulla regola dell’autocensura, Vito Ciancimino ritenne di risolvere sostenendo in un’intervista ripresa maliziosamente da Sciascia che “in particolari momenti, come quello che stiamo vivendo, forse sarebbe meglio non pubblicare i messaggi dei brigatisti”.
Non essendo l’attuale un “particolare momento”, perché manca una situazione qualsivoglia di emergenza, e visto che il messaggio divulgato da Salvo Riina è stato di tipo essenzialmente pubblicitario ai fini del suo libro, averlo ospitato in una televisione ancorché di Stato può non apparire – secondo il codice Ciancimino – un atto nefando come piuttosto viene additato, ancor più perché lo stesso Ciancimino premetteva che “in linea di principio informare l’opinione pubblica è un dovere”. Appartenendo alla stessa categoria etica, anche Riina senior la pensa allo stesso modo di Ciancimino, dovendosi supporre che senza il suo consenso il figlio non si sarebbe certamente addetto a scrivere un libro di memorie infantili né sarebbe andato da Vespa a professare il credo dell’amore famigliare. Ma quel che Salvo Riina ha in realtà professato è l’affermazione della “banalità del male” nella chiave della riduzione di esso ad uno standard di normalità diffusa e condivisa.
Umanizzare la mafia è il recidivante processo di omologazione a uno statuto siciliano che anche Camilleri ha più volte rischiato di innescare e prima di lui lo stesso Sciascia e ancora indietro Pirandello. Quel che Sciascia faceva notare delle Brigate rosse – che erano anch’esse italiane come la Democrazia cristiana, fatte cioè di guasti ed errori – potremmo accettarlo per la mafia se vediamo in Salvo Riina che parla in Tv non il frutto del male assoluto ma un figlio che come tutti i figli dimostra affetto per il padre e attaccamento alla famiglia. In questo modo si finisce però per accettare le ragioni del lupo che, nella favola di Esopo, vedendo dei pastori mangiare una pecora, esclama: “Chissà che scompiglio se fossi stato io”.