STORIE USATE

Siegmund Ginzberg

La ballata del grande segretario

Il mondo ha assistito a una strana scena in conclusione del XX Congresso del Partito comunista cinese (Pcc). In diretta tv. Nel grande salone dell’Assemblea del Popolo erano stati appena fatti entrare giornalisti, fotografi e telecamere. Xi Jinping aveva appena finito di pronunciare il discorso conclusivo. Si sono visti due robusti inservienti chiedere all’uomo seduto alla sinistra di Xi di alzarsi e abbandonare la sala, indicandogli l’uscita dal palco. Li aveva chiamati Xi in persona. Quell’uomo si chiama Hu Jintao, è l’ìmmediato predecessore di Xi Jinping e per i dieci anni precedenti i due mandati quinquennali dell’attuale leader massimo della Cina era stato lui a cumulare le cariche di presidente del Paese, segretario del Pcc e presidente della Commissione militare del partito, la carica più importante di tutte in una Cina dove, come diceva il vecchio Mao, “il potere nasce dalla canna del fucile”.

L’invito non era cortese. A un certo punto, siccome lui non mostrava alcuna intenzione di alzarsi, c’è mancato poco che afferrassero sotto le ascelle quel vecchio dai capelli bianchi e dell’aria fragile, e lo portassero via di peso. C’è stato un lungo parlottare, diversi secondi, con quello che sembrava dirgli: io di qua non mi alzo, lasciatemi stare. Poi gli hanno messo le mani addosso. Lui ha cercato di prendersi una cartella con la copertina rossa. Nei secondi immediatamente precedenti si era visto una strano trafficare su quella cartellina tra il vegliardo, un pochino assente e confuso, e chi gli sedeva accanto. Gliel’hanno prima allontanata in malo modo, poi gliel’hanno presa. Indicando ripetutamente l’uscita gli hanno ingiunto di seguirlo. Il personaggio seduto alla sua sinistra ha provato anche lui ad alzarsi, ha accennato ad aiutare Hu, forse a convincerlo a non fare resistenza. In apparenza un gesto di rispetto, se non di pietà.

Il buon samaritano si chiama Li Zhanshu. È – in quel momento era, per essere più precisi – il presidente dell’Assemblea del Popolo, la seconda carica dello Stato. Poi si è visto quello che sedeva alla sua sinistra passargli furtivamente un braccio dietro la schiena, tirargli la giacca per invitarlo a stare seduto al suo posto. Come per dirgli: “Ma che fai, sei impazzito? Non fare sciocchezze”. Li si è immediatamente rimesso a sedere. Ha tirato fuori di tasca un fazzoletto bianco e si è asciugato il copioso sudore che gli colava dalla fronte. Di tutta la scena quelle gocce di sudore erano la cosa che più mi ha impressionato, l’unico tratto credo assolutamente sincero. Quello che amichevolmente lo aveva richiamato all’ordine, tirandogli da dietro la giacca, si chiama Wang Huning. In quel momento era il quarto nella gerarchia al vertice della Cina. È considerato l’eminenza grigia del partito, si occupa dell’ideologia. Lui è rimasto nel Comitato permanente dell’Ufficio politico, il massimo organo di direzione, sette persone che hanno il comando assoluto in Cina (sempre che non si oppongano al capo supremo, che è Xi Jinping). Li Zhanshu, che non riusciva a controllare i sudori freddi, invece è fuori. Entrambi avevano fatto carriera sotto Hu Jintao. Erano stati suoi stretti collaboratori. Forse erano legati da qualche debito di riconoscenza, se non di affetto nei confronti del loro antico dirigente. Ma si sa, l’affetto non ha posto in politica.

In questi lunghissimi secondi Xi Jinping è rimasto fermo, di ghiaccio. Non si mai è mai voltato. Neanche per la curiosità di vedere cosa stava succedendo. Gli inservienti li aveva chiamati lui con un cenno degli occhi. Non si è voltato neppure quando Hu Jintao, che veniva condotto fuori camminando con le proprie gambe, ma sempre con una ferma stretta al braccio da parte dei suoi accompagnatori, si è fermato dietro di lui, per toccargli la spalla, dirgli qualcosa. Non l’ha salutato, non gli ha detto una parola gentile. Freddissimo, gelido, gli ha solo fatto un gesto, come per dirgli: vai, vai, che facciamo i conti dopo… Così non hanno fiatato, non hanno accennato al minimo cenno di saluto, non diciamo empatia, tutti gli altri seduti alla presidenza. I più non hanno osato nemmeno muovere gli occhi, hanno fatto finta di non vedere. Era come se il gelo e la paura si potessero tagliare con un coltello.

Cos’era successo? La versione ufficiale, fornita molte ore dopo dall’agenzia Xinhua, dice che Hu Jintao si era sentito male, e quindi è stato accompagnato fuori dalla grande sala, in una saletta riservata dove avrebbe potuto “riposarsi”. È molto cinese questa faccenda del riposarsi. Tra le non molte cose che avevo imparato nei miei lunghi anni in Cina c’è che lo usavano come formula di cortesia per levarsi di torno l’interlocutore, quando, mettiamo, un colloquio è finito e non vogliono altre domande, quando non vogliono che uno vada a curiosare intorno. Quante volte mi era capitato di sentirlo: Xiuxi ba!, siete stanchi, andate a riposare, detto col tono con cui si direbbe “a cuccia!”. La versione di Xinhua non tiene. Hu Jintao appariva fragile sì, e un po’ frastornato, ma pieno di energia nell’opporsi, all’inizio anche con la forza, all’allontanamento. Ha camminato con passo abbastanza sicuro. Xinhua aggiunge che “si è ripreso e sta molto meglio”. Ma da allora non lo si è più visto. E comunque la scena, che era stata trasmessa dalle tv e dai blog di tutto il mondo, non è mai stata data dalle tv cinesi, ed è stata bandita da internet. Eppure mi sono fatto l’idea che non gli sia affatto scappata di mano. Era voluta, doveva essere vista. Altrimenti non si capisce perché non l’abbiano rimosso qualche istante prima, quando la sessione era ancora a porte chiuse.

L’umiliazione era, ne sono convinto, voluta, calcolata. Un modo per dire: ora comando solo io. Che tra Hu Jintao e Xi Jinping non corresse buon sangue era risaputo. Xi l’accusava di aver governato debolmente nei “dieci anni perduti”, in cui la Cina era sì cresciuta a rotta di collo, ma si era impantanata nella corruzione e nei subitanei arricchimenti che accompagnano la crescita, persisteva in una politica internazionale di buoni rapporti con tutti, Stati Uniti compresi, col rischio di farsi mettere i piedi sulla testa. I predecessori, i “vecchi” in generale, sono ingombranti. Sono gli unici in grado di fare da contrappeso al potere assoluto dell’imperatore. Negli anni ‘80, i miei anni in Cina, faceva una certa impressione vedere, nelle occasioni più solenni, i vecchissimi Chen Yun, Xi Zhongshun, Nie Rongzhen fatti sedere alla tribuna che ormai non riuscivano nemmeno a reggersi in piedi. Erano i compagni di Mao. I generali che avevano vinto la guerra, conquistato e mantenuto il potere. Benché capo assoluto, in quanto capo della Commissione militare, anche Deng Xiaoping dovere tenerne conto. Li chiamavano “gli immortali”. Erano loro ad essere consultati prima di qualsiasi decisione importante. Non in riunioni formali, ma in incontri a tu per tu. Stavolta Xi non aveva esibito al Congresso i vecchissimi. Song Ping che ha 105 anni, o il predecessore del suo predecessore, Jiang Zemin, malato da tempo, o il 93enne ex primo ministro Zhu Rongji. Alla viglia del Congresso era stata addirittura diffusa la fake news per cui Song Ping avrebbe autorizzato la rimozione e l’arresto di Xi. Si sapeva che non erano d’accordo con la politica draconiana sul Covid, forse sulla drammatizzazione delle tensioni con gli Stati uniti per Taiwan, forse anche sul ritardo con cui Xi ha detto a Putin di smetterla in Ucraina. E, ancora, c’erano dissensi evidenti sulla politica economica, sull’esasperazione del culto della personalità, sulla reintroduzione di una presidenza a vita. Parlavano a mezza voce, per rebus. Ma tutti avevano capito.

Il premier Li Keqiang, ora messo in disparte, aveva detto, nell’agosto scorso, durante una visita nel Guangdong e a Shenzhen che “il Fiume Giallo e lo Yangtze continueranno a scorrere sempre verso la foce, non possono tornare indietro, così come non possono tornare indietro le riforme e la politica di apertura della Cina”. Anche l’ultracentenario Song Ping aveva detto che non va abbandonata in alcun modo la politica delle riforme. Tutti hanno capito cosa volevano dire, e con chi ce l’avevano. Il dipartimento organizzazione del partito aveva emanato nuove rigide norme in cui si invitava i dirigenti a “non discutere arbitrariamente la linea politica” e ad astenersi dal fare “osservazioni politicamente negative”.  Per i due mandati precedenti Xi Jinping aveva dovuto fare i conti, mediare con le altre “anime” del partito, le altre cordate. Aveva eliminato con grande brutalità quelli che rappresentavano un pericolo immediato, il principino rivale e satrapo del Sichuan Bo Xilai, l’apparentemente potentissimo capo della sicurezza e dei servizi segreti dal volto di mastino, Zhou Yongkang. Erano spariti un certo numero di capi militari. Ma aveva mantenuto un modus vivendi con gli altri. Tra questi Hu Jintao.

La prima pagina del Quotidiano del Popolo del 24 ottobre 2022. Celebra il terzo mandato di Xi Jinping (foto di Koki Kataoka/The Yomiuri Shimbun via AFP)

Stavolta ha deciso di fare piazza pulita. Nel nuovo vertice ci sono solo suoi fedelissimi. Buon per lui. Ma ai mercati – che neanche un impetratore può comandare a bacchetta – non piace per nulla che si sia disfatto di tutti quelli che masticavano di economia. Così come non era piaciuto che avessero deciso di posticipare i dati sulla crescita nel secondo trimestre sino a dopo il Congresso. Non è un buon segno. Se i numeri sono buoni non c’è motivo di non annunciarli. Se Hu piaccia o meno ai cinesi è un altro paio di maniche. In queste cose non hanno voce in capitolo.

Così succede. Così è sempre successo. Da secoli. Da millenni. L’imperatore comanda da solo. Fa fuori chi gli pare. Umilia chi gli pare. Eleva o fa cadere nella polvere chi gli pare. Promuove e dimissiona a suo capriccio. Talvolta lo fa a scopo dimostrativo, giusto per far sapere chi ha il potere. Il licenziamento dei primi ministri e dei segretari è sempre stato particolarmente brutale. Talvolta erano definitivi, perché il rimosso non sopravviveva. Altre volte erano rimozioni solo temporanee, venivano seguite, più o meno tempo dopo, da reincarichi. Mao aveva rimosso due volte Deng Xiaoping, e due volte lo aveva richiamato al governo. Talvolta le resurrezioni avevano del miracoloso. Di solito l’alto personaggio che aveva perso la grazia dell’imperatore veniva rimosso e portato via di peso dalle guardie del corpo dell’imperatore. In epoca Ming si chiamavano “Guardie dalle uniformi ricamate”, un corpo dei servizi segreti. Talvolta il malcapitato veniva consegnato subito al boia. Tal altra tenuto agli arresti domiciliari, o inviato in esilio o in campagna, a rinfrescarsi la mente.

Per combinazione, proprio nei giorni in cui era in corso il Congresso del Pcc stavo leggendo un saggio su come un imperatore sostituiva, puniva o promuoveva i suoi Grandi segretari nella Cina del 1500. Si intitola “Four Seasons: A Ming Emperor and His Grand Secretaries in Sixteenth-Century China”. Autore è lo storico e sinologo dell’University of Kansas, John W. Derdess, specialista della dinastia Ming, forse la più splendida e “illuminata” della storia cinese. Il mondo allora aveva 400 milioni di abitanti. 150 milioni vivevano in Cina, che era il paese di gran lunga prospero e stabile al mondo, mentre le potenze europee si sbranavano tra di loro, erano dilaniate dalle guerre di religione, la Russia arretrata era governata con pugno di ferro da Ivan il Terribile e i Turchi ottomani si stavano impadronendo dell’Europa e del Mediterraneo orientali. È una lettura avvincente come un romanzo, credetemi. Ad ogni pagina sembra si parli di cose della nostra epoca.

Ero arrivato al capitolo in cui l’imperatore, verso la fine del suo lungo regno, è in difficoltà, rischia addirittura di perdere il regno di fronte a un malcontento crescente, e pensa bene di prendersela con un capro espiatorio. È il 1550, un annus horribilis per la Cina. Quell’inverno non aveva nevicato, né piovuto per quasi sei mesi. Nel nord i raccolti sono devastati da una siccità senza precedenti. La capitale è investita da tempeste di sabbia. C’era stato un terremoto nel Liaodong. Imperversavano le epidemie. Si erano prosciugate le entrate fiscali. Dal nord premevano i barbari Lu, che, privati dei mercati per i loro cavalli, erano arrivati a minacciare addirittura Pechino, la capitale. Dalle coste del sud imperversavano i pirati giapponesi e di Taiwan.

Il capro espiatorio fu il sino a quel momento potentissimo comandante militare supremo. Non ci si limitò ad attribuirgli la responsabilità dei disastri militari. Gli si attribuì anche la colpa della corruzione diffusa che aveva svuotato le casse dello Stato. Come se non bastasse, si aggiunse l’accusa di altro tradimento. Anziché combattere come dovuto i Lu (un popolo mongolo del nord, poi scomparso), il comandante si era mostrato debole, concedendo al loro capo, Altan Khan, i mercati in cui smerciare i loro cavalli. It is the Economy, Stupid! Avrebbe inviato messaggi segreti ai pirati giapponesi, si sarebbe arricchito trafficando coi barbari del Nord. Peggio ancora: avrebbe tramato un golpe di palazzo per destituire l’imperatore. Due suoi stretti collaboratori furono convinti, con il falso avviso di un arresto imminente, a scappare. Furono catturati appena usciti da Pechino, torturati e costretti a confessare che il generalissimo Qiu Luan era a capo del complotto. Questi, per sua fortuna, nel frattempo era già morto (sembra di cancro), ché altrimenti gli sarebbe magari venuta la bizza di difendersi. L’imperatore ordinò che la salma venisse riesumata, gli fosse tagliata la testa ed esposta a turno presso le nove guarnigioni di frontiera. I genitori, la consorte, i figli, i suoi due collaboratori furono anche loro decapitati. Le concubine e nipoti furono dati in schiavitù a funzionari meritevoli, tra questi molti stretti collaboratori e sottoposti dello squartato postumo, che l’avevano immediatamente abbandonato appena annusato che era in disgrazia. Le sue proprietà vennero confiscate. Gli altri familiari e clienti furono esiliati.

L’imperatore si chiamava Jiajing. Uno degli ultimi, prima che la dinastia Ming fosse scalzata dai più agguerriti invasori Manciù. Regnò 45 anni, dal 1521 al 1567. C’è chi lo considera un imperatore indolente, anzi assente, sempre chiuso nel palazzo che si era fatto appositamente costruire sulle colline occidentali, fuori della mischia. Il libro di Dardess lo presenta invece, sulla base di una mole imponente di documenti primari, come attivissimo, lettore infaticabile delle migliaia di memoriali, rimostranze, denunce che gli vengono presentati. Segue la formazione dei gruppi dirigenti, dell’immensa burocrazia scelta per merito e per esami. È attentissimo anche a quel che succede ai confini, e nelle 159 prefetture in cui è divisa l’immensa e complessissima macchina amministrativa. In apparenza delega al Grande segretario e ai suoi collaboratori nella segreteria. In realtà li segue con estrema attenzione, non perde una battuta delle tensioni fra di loro e degli intrighi di corte, media i conflitti di opinione e di potere. Li sostituisce periodicamente: cambierà almeno quattro Grandi segretari, alternando tecnocrati e pragmatici. Talvolta li richiama in servizio qualche tempo dopo averli allontanati.

Peng Dehuai and Mao Zedong in 1953 (Wikimedia Commons)

Un’espulsione da un consesso imperiale, assai più recente, e più direttamente attinente alla dinastia attuale, la dinastia comunista fondata da Mao, è la caduta in disgrazia di Peng Dehuai alla conferenza di Lushan nel 1959. Peng era ministro della Difesa. Godeva di un prestigio enorme, aveva più volte salvato Mao durante la Lunga marcia e le campagne di accerchiamento e distruzione da parte di Chiang Kai-shek. Era stato l’ideatore della “campagna dei Cento reggimenti” contro i Giapponesi nel 1940. Poi il comandante supremo del milione di volontari cinesi mandati in Corea contro gli Americani. Era l’unico abituato a dare del tu a Mao. Entrambi erano dello Hunan, la terra del peperoncino piccante e del linguaggio colorito. Non aveva mai avuto paura di dirgliene quattro, e anche litigare col capo supremo. Non per niente definivano lui e Mao come “i due muli testardi dello Hunan”. Ma a Lushan aveva fatto un errore: aveva criticato apertamente il Grande Balzo in avanti. Nel merito aveva pienamente ragione, era un disastro che sarebbe costato alla Cina decine di milioni di morti per fame, un buco demografico spaventoso. Peng aveva scritto una lunga lettera a Mao. Il memoriale all’imperatore, talvolta brutale in franchezza, è una tradizione millenaria. Ma a Lushan era stato stampato e distribuito a tutti i presenti. Mao reagì malissimo. Al quarto giorno della conferenza gli rispose per le rime, accusandolo di complottare contro di lui, di guidare una cricca anti-partito, al soldo dello straniero. Il riferimento, trasparente, era ai sovietici. A Nikita Chruščëv, che in quel momento proponeva la coesistenza pacifica con gli Americani e aveva negato la bomba atomica ai cinesi. 

Non si sa se Peng sia stato scortato a forza fuori dal convegno. Si sa che fu privato di tutti i suoi incarichi e posto agli arresti domiciliari. Mao inveì con la caratteristica oscenità cinese, il tamade: “Si lamenta che ho fottuto sua madre per 18 giorni (tanto era durata la conferenza nella pittoresca località montana di Lushan). Lui a Yan’an mi ha fottuto la madre per 40 giorni…”. Nessuno dei presenti lo difese, nemmeno Zhou Enlai, Liu Shaoqi o Chen Yun, che pure erano anche loro critici del Grande Balzo. Deng Xiaoping se l’era cavata dandosi malato: disturbi alle gambe. Peng avrebbe inutilmente cercato una spiegazione con Mao inviandogli un memoriale noto come “La lettera degli ottantamila caratteri”. A tutt’oggi non è mai stata resa nota. Con la rivoluzione culturale Mao avrebbe fatto i conti con gli altri. Iniziò con un articolo in cui si criticava una pièce teatrale, “Le dimissioni di Hai Rui”, su un alto funzionario ingiustamente rimosso durante il regno dell’imperatore Jiajing. Vi videro un subdolo riferimento al dimissionamento di Peng Dehuai. Le Guardie rosse gli spaccarono la schiena. Mao non ebbe mai un gesto di solidarietà o compassione nei suoi riguardi.

Quest’articolo è stato pubblicato in origine sul Foglio di lunedì 31 ottobre. 

Foto di copertina: La prima pagina del Quotidiano del Popolo sul terzo mandato di Xi Jinping, 24 ottobre 2022 (Koki Kataoka/The Yomiuri Shimbun via AFP).

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