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Massimo Rosati

Docente sociologia generale Università di Roma Tor Vergata

Italia modernamente devota (II)

Libri.

Due settimane fa ho dedicato qualche riflessione al libro di Emma Fattorini, Italia devota. Religiosità e culti tra Otto e Novecento (Carocci 2012). Chi le ha lette ricorderà forse che avevo voluto sottolineare l’interesse di una lettura, quella dell’autrice, che anziché cadere nella facile trappola della denuncia del carattere retrogrado delle forme di devozione popolare, ne sottolinea invece il ruolo di accompagnamento alla formazione dell’Italia moderna, e in tempi più recenti il carattere fortemente simpatetico con alcune caratteristiche proprie della modernità contemporanea e, più in particolare, della religiosità moderna. Questa settimana voglio soffermarmi su un ulteriore spunto fornito dal libro della Fattorini, anch’esso stimolante perché capace di mettere in questione il senso comune di una visione del mondo laica, secolare e progressista.  Si tratta del modo in cui generalmente si pensa il rapporto tra scienze e fede al cospetto di certi fenomeni religiosi. La tesi della Fattorini è che oggi la divaricazione tra le due si presenta in forme “ancora più regressive che a fine dell’Ottocento” (p. 24). Paradossalmente, ciò avviene perché la fede viene confinata nel regno dell’irrazionale e del dogmatismo, nello stesso momento in cui anche i credenti prendono a ricorrere al linguaggio della scienza per giustificare certe credenze. Commentatori cattolici che adducono prove inconfutabilmente scientifiche per la ricrescita di un arto ad opera della Madonna del Pilar, laici e credenti che si affidano ciecamente (sic) alle indagini di laboratorio per accertare una volta per tutte se il DNA del sangue sgorgato dagli occhi di una statua della Madonna sia maschile o femminile: in questi come in molti altri casi che si potrebbero citare, il linguaggio della scienza sembra l’unico legittimo anche per difendere pubblicamente significati religiosi. Nelle sue forme estreme, si chiama scienza (scientismo) come “religione della verità” (p. 25), nelle sue forme ragionevoli, aggiungerei io, ricorso alla ragione pubblica quale unico linguaggio legittimato a parlare pubblicamente anche di questioni religiose. La Fattorini garbatamente suggerisce che forse certi fenomeni sarebbero valutati meglio con un metodo storico-critico: “da una teologia attenta a cogliere nei miracoli un segno e non una prova, da una parte, e da una cultura laica che li esamini sul piano storico e simbolico, dall’altra” (p. 24). Lasciamo la Fattorini, non senza un ringraziamento per questo ultimo garbato suggerimento, e siamo un po’ meno garbati: è possibile che a fronte di una vicenda come la sentenza del tribunale di Colonia sulla circoncisione, di cui si è molto discusso, gli argomenti con cui difendere il diritto a questa pratica religiosa debbano essere quasi per lo più di carattere medico-scientifico? L’incidenza positiva nella riduzione dei rischi di infezione è stata richiamata certamente non meno della difesa della libertà religiosa o del significato culturale che la circoncisione ha per le comunità ebraica e islamica. Ma perché nessuno, che io sappia, ha speso una parola sul suo significato non solo identitario, ma anche su quello(i) spirituale(i) a cui il significato identitario è legato? Non mi permetto di entrare in un campo non mio, ma come pluralista non credente sono certo di avere infinitamente di più da imparare da chi volesse mostrarmi la ricchezza dei significati spirituali che questa pratica ha per le comunità che tanta importanza le attribuiscono piuttosto che da argomenti improntati alla ragion pubblica sulle sue virtù igieniche. Insomma, l’apprendimento complementare di cui parliamo discutendo di postsecolare si può dare solo se la ricchezza di senso del discorso religioso non viene anestetizzata programmaticamente dall’egemonia di una ragione pubblica incline a farsi “religione della verità”.

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