Gli elenchi, si sa, non sono il massimo della lettura. Ma a volte aiutano a capire che cosa bolle in pentola. E per l’Italia ciò che bolle nella “pentola libica” è qualcosa di molto indigesto.
E allora, leggete qui: le grandi imprese italiane, dati della camera di commercio, presenti in Libia operano soprattutto nei settori del petrolio e gas (Eni, Snam Progetti, Edison, Tecnimont, Saipem), delle costruzioni ed opere civili (Impregilo e Bonatti, poi Garboli-Conicos, Maltauro, Enterprise), della ingegneria (Techint e Technip), dei trasporti (Iveco, Calabrese, Tarros, gruppo Messina, Grimaldi, Alitalia), delle telecomunicazioni (Sirti e Telecom Italia),dei mangimi (Martini Silos e Mangimi); della meccanica industriale (Technofrigo – impianti refrigerazione – e Ocrim – mulini); delle centrali termiche (Enel Power); dell’impiantistica (Tecnimont, Techint, Snam Progetti, Edison, Ava, Cosmi, Chimec, Technip, Gemmo). Sono presenti inoltre Telecom, Prismian Cables (ex Pirelli Cavi). Insomma, il gotha dell’economia del Belpaese.
Ora, pensate cosa i grandi Ceo pubblici e privati possano provare di fronte agli insaziabili appetiti dell’uomo che sta vincendo la partita libica: il presidente turco Recep Tayyp Erdogan. Parlare di timori, è un eufemismo. Perché il rischio, che si fa sempre più certezza, è che il Sultano ci voglia sloggiare dalla Libia o, comunque, far dipendere la presenza italiana dai suo desiderata. Insomma, espulsi o in ginocchio.
Potenza di fuoco
La Turchia è presente militarmente non solo in Siria, dove, nel silenzio complice della comunità internazionale prosegue la pulizia etnica da parte delle armate turche contro la popolazione curdo-siriana del Rojava, ma anche in Libia e in Somalia. Ed è presente non solo con truppe regolari del suo poderoso esercito (il secondo in dimensioni e armamenti della Nato, dopo gli Stati Uniti), ma anche con mercenari e miliziani jihadisti reclutati in Siria da Erdogan anche tra le fila dell’Isis e di al-Qaeda. A loro è toccato il lavoro sporco nel Nord della Siria, fosse comuni, stupri di massa, saccheggi, e molti di questi tagliagole riciclati dal presidente turco, ora sono stati spostati sul fronte libico, a sostegno del Governo di accordo nazionale di Fayez al-Sarraj.
“Il fatto che il governo di Tripoli abbia riconquistato le coste davanti all’Italia è una pessima notizia per noi – rimarca il direttore di AnalisiDifesa, Gianandrea Gaiani, in una intervista a Tempi – . È un fatto che Haftar non le abbia mai utilizzate per spedirci migliaia di immigrati clandestini. Salvo rare eccezioni, non ha mai sfruttato il traffico di esseri umani. La stessa cosa non si può dire della Turchia, che ha sempre ricattato l’Europa con i migranti. L’ha fatto recentemente con la Grecia e d’ora in avanti potrebbe ricattare anche noi, visto il peso diplomatico e militare che si è guadagnato nel governo di Tripoli.
Dalla Libia alla Somalia, dal Vicino Oriente al cuore dell’Africa: è il disegno neo-ottomano perseguito da Erdogan. Per realizzarlo, il Sultano ha bisogno di costruire alleanze con dittatori africani, come è avvenuto nel Sudan con il dittatore e criminale di guerra Omar al Bashir, deposto nel 2019, con il quale il Sultano concluse un accordo per il restauro di siti ottomani nel Paese. In Africa, la Turchia è una potenza. In Somalia, come in Libia, è la garanzia armata dei governanti in carica. Così come ha trafficato petrolio di contrabbando con al-Baghdadi, il presidente turco sposta miliziani e mercenari sullo scacchiere africano.
E non è un caso che il presidente del Governo di accordo nazionale (Gna) , Fayez al- Sarraj, abbia annunciato che le forze a lui fedeli hanno preso il controllo della capitale libica, Tripoli, respingendo le milizie fedeli al generale di Tobruk, Khalifa Haftar., proprio nel giorno in cui si recava ad Ankara per omaggiare il suo decisivo protettore turco, che lo ha sostenuto politicamente, ma soprattutto militarmente, attraverso l’invio di consiglieri, istruttori militari e materiale bellico, oltre che di migliaia di mercenari.
Erdogan si è detto felice per la vittoria ottenuta da Tripoli e ha ribadito la legittimità del governo di Sarraj, insistendo per una soluzione politica alla crisi, che con la supervisione dell’Onu garantisca unità territoriale e stabilità alla Libia. Il presidente turco ha definito Haftar “un golpista” e un “criminale di guerra”, indicato come “il principale ostacolo” a una soluzione pacifica del conflitto dopo aver causato “un bagno di sangue”, sostenuto da Egitto, Russia, Francia ed Emirati arabi, che saranno “giudicati dalla storia”. Soprattutto Erdogan ha ribadito che le intese stipulate con Sarraj lo scorso novembre diventeranno sempre più ampie, sia per quanto riguarda la cooperazione militare che lo sfruttamento da parte della Turchia delle acque a sud di Cipro: “Il nostro obiettivo è far progredire la nostra cooperazione, tra cui l’esplorazione e la perforazione, per beneficiare delle ricchezze naturali nel Mediterraneo orientale”.
Erdogan ha anche annunciato un nuovo accordo tra i due governi per impedire esportazioni illegali di petrolio da parte di Haftar. Un tema su cui i due leader sono, secondo Erdogan, “sulla stessa linea d’onda” e rispetto al quale il presidente turco ha invocato l’intervento della comunità internazionale.
“Continueremo la nostra lotta fino all’annientamento del nemico in Libia. Non accetteremo alcun negoziato con Haftar”, ha dichiarato al-Sarraj, promettendo già a Erdogan la ricompensa per “la sua storica e coraggiosa posizione” con l’assicurazione di voler “vedere le imprese turche in Libia durante la fase di ricostruzione”.
E qui scatta l’allarme rosso ai vertici delle aziende sopra indicate. Perché quello della ricostruzione di un Paese distrutto da nove anni di guerre, è un affare iper miliardario. E di questa “torta” l’Italia rischia di riceverne solo briciole.
Roma balbetta
Anche perché all’aggressività di Erdogan fa da contraltare il balbettio italiano. Rileva su Il Corriere della Sera Franco Venturini: “La partita italo-turca, e la credibilità reciproca, si giocano in Libia e nel futuro delle sue ricchezze energetiche. Mentre Erdogan spara volentieri e sogna una rivincita neo-ottomana, l’Italia balbetta, non crea proposte che non siano inutili conferenze, e non ha un fronte politico interno in grado di appoggiare un uso intelligente (come in verità è stato fatto a Misurata) dello strumento militare. Silvia Romano ci ha aiutati a sollevare un coperchio che la politica estera italiana preferiva tenere chiuso. Ora si tratta di affrontare quel che bolle in pentola”.
L’italico cerchiobottismo
Il cerchiobottismo italiano porta al disastro ben fotografato dall’ex vice ministro degli esteri, e profondo conoscitore della realtà libica e nordafricana, Mario Giro: “L’abbiamo visto già in Siria e ora la storia si ripete: due potenze (una maxi e l’altra media) stanno prendendo progressivamente il controllo del Mediterraneo, mediante una sofisticata manovra competitiva e allo stesso tempo cooperativa tra i due. In Siria comandano Mosca e Ankara; dopo aver tentato un ruolo autonomo, l’Arabia Saudita si sta allineando; a Cipro (e ai suoi campi petroliferi offshore) non ci si può avvicinare senza il permesso turco; l’Egitto è preso in tenaglia e dovrà adeguarsi; Algeria e Tunisia hanno i loro problemi interni. La sponda nord (cioè l’Europa) lascia correre: non fa politica estera, non negozia, non riflette sul da farsi. Il problema è innanzi tutto italiano. Paradossale rammentare che eravamo il primo partner commerciale di Damasco e Tripoli: ora ci manderanno via, lentamente ma sicuramente. Presi dalla nostra ossessione migratoria non abbiamo visto ciò che accadeva: l’espansione strategica turca (che l’Italia stessa cacciò dalla Libia nel 1911) e il ritorno della Russia nel Mediterraneo”.
Riflette in proposito, Michela Mercuri, docente di Geopolitica del Medio Oriente presso l’Università Niccolò Cusano di Roma, membro dell’Osservatorio sul fondamentalismo religioso e sul terrorismo di matrice jihadista dell’Università di Calabria: “Noi abbiamo perso la Libia nel 2011, quando abbiamo accettato di eliminare il nostro principale alleato nel Mediterraneo, Muammar Gheddafi. Poi abbiamo cercato di recuperare terreno attraverso l’Eni, più che con la politica. Il governo negli ultimi mesi ha colpevolmente perso di vista questo dossier e ora si è svegliato all’improvviso e sta cercando di recuperare. Ma è difficile. Il pallino ora ce l’hanno russi e turchi”.
E anche il presidente-generale di Egitto. Abdel Fattah al Sisi ha annunciato che Khalifa Haftar, e Aguila Saleh, presidente della Camera dei rappresentanti, hanno trovato un accordo per porre fine alla crisi bellica in Libia. E ha sottolineato che l’accordo prevede un appello alla comunità internazionale affinché obblighi i paesi stranieri ha ritirare i propri mercenari dalla Libia. La svolta giunge il giorno dopo gli Stati Uniti avevano chiesto agli Emirati di convincere Haftar a cessare le ostilità contro le forze ddel Governo di accordo nazionale (Gna) che ieri hanno preso il controllo, senza colpo ferire, di Tarhuna, ultimo feudo del generale in Tripolitania. Sono questi gli ultimi sviluppi politici e militari sul dossier libico all’indomani degli incontri di Mosca tra il vicepresidente Ahmed Maetig e il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, nell’ambito di una triangolazione con l’Egitto, dove è si è tenuto ieri un incontro “risolutivo” tra lo stesso uomo forte della Cirenaica e Saleh.
Nelle stesse ore giungeva la notizia che il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, aveva avuto giovedì una conversazione telefonica con il principe ereditario degli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Mohammed bin Zayed Al Nahyan, incentrata sulla crisi libica. Foggy Bottom, in una nota, afferma che i due hanno discusso della situazione nella regione e hanno concordato sulla necessità di un cessate il fuoco in Libia e sulla ripresa del dialogo politico sponsorizzato dalle Nazioni Unite. Commentando i colloqui con il leader degli Emirati Arabi Uniti, il segretario di Stato ha scritto su Twitter: “Ha avuto un’importante conversazione con il principe ereditario degli Emirati, lo sceicco Mohammed bin Zayed Al Nahyan, sull’aumento della stabilità regionale e sul sostegno a un cessate il fuoco duraturo e mediato dalle Nazioni Unite in Libia. Era la tessera che mancava nel mosaico diplomatico: gli Emirati erano rimasti l’ultimo sponsor di Haftar convinto a voler andare sino in fondo, ovvero cessare le ostilità solo quando Tripoli sarebbe caduta. Scenario che, con l’entrata in campo della Turchia al fianco del Gna guidato da Fayez al Serraj, si è velocemente vanificato.
Riepilogo dei mediatori e sponsor: Russia, Stati Uniti, Turchia, Egitto, Emirati Arabi Uniti. Dalla “Jalta libica” l’Italia è fuori. Game over.