MEDIO ORIENTE IN FIAMME

Umberto De Giovannangeli

Israele, un voto impastato di odio

Ormai non è più una crisi politica. E’ una crisi di sistema. Di un Paese lacerato, invelenito, ostaggio di una classe politica incapace di abbozzare uno straccio di visione, di progetto, abbarbicata al potere. Israele, così tramonta una democrazia.

Per la terza volta in meno di un anno, Israele torna alle urne, il 2 marzo prossimo,  dopo settimane di trattative sempre più miserevoli, condotte da un premier, Benjamin Netanyahu, che ha dichiarato guerra alla Magistratura, arrivando a evocare un “golpe legale” di cui il procuratore generale Avichai Mandelblit, peraltro nominato dallo stesso Netanyahu a quell’importante incarico, si sarebbe fatto strumento.

Una cosa è certa: Israele si prepara ad una campagna elettorale ancora più avvelenata, se è possibile, di quelle che l’hanno preceduta nei mesi scorsi. Tenete i vostri bambini lontani dalla tv, ci saranno nuove elezioni e saranno un festival di odio, violenza e disgusto”, avverte Yair Lapid, numero due di Kahol Lavan (Blu-Bianco) che ha condotto assieme al leader Benny Gantz le trattative per la formazione dell’esecutivo.

Odio, violenza, disgusto. Un impasto avvelenato che dà conto di un Paese nel quale un leader si legittima non perché portatore di una visione positiva ma perché capace di aizzare la folla, e conquistare consensi, contro il Nemico di turno, additato come “golpista”, “traditore” e se appartenente alla comunità araba israeliana (oltre il 20% della popolazione) “fiancheggiatore dei terroristi palestinesi”.

Il fallimento delle trattative tra Likud e Blu-Bianco ha reso inevitabile lo scioglimento del Parlamento e il ritorno alle urne, il 2 marzo prossimo.   Saranno elezioni decisive per l’attuale premier Netanyahu, incriminato per corruzione, frode e abuso di potere in tre casi giudiziari.” La vera minaccia è lui! È un primo ministro che fomenta odio e divisione, che con le sue parole intrise di odio arma ideologicamente e politicamente la mano alla destra più estrema. Netanyahu si comporta come un politico disperato, pronto a tutto pur di restare al centro della scena. Un comportamento indegno del leader di un partito, il Likud, che io ho sempre avversato ma a cui riconosco di essere stato, assieme al Partito laburista, per decenni un perno fondamentale del nostro sistema democratico. Begin e Sharon si rivolterebbero nella romba se potessero ascoltare le performance di Netanyahu”,  afferma Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare e vice sindaca di Tel Aviv, paladina dei diritti delle donne, figlia di uno dei miti d’Israele: l’eroe della Guerra dei Sei giorni, il generale Moshe Dayan.

Ma sarà un voto decisivo anche per Benny Gantz, l’ex capo di stato maggiore dell’esercito, leader del centrista Blu-Bianco, che dopo due elezioni sul filo di lana spera di dare la spallata finale a Netanyahu con la promessa di cambiare, se vincerà, l’intera politica israeliana degli ultimi anni dominata dal più longevo primo ministro in carica, Ben Gurion compreso. Per i sondaggi, stavolta, sarebbe ad un soffio dal farcela: in nuove elezioni i partiti di centro sinistra farebbero meglio che nel voto del 17 settembre scorso e riuscirebbero a conquistare 60 dei 120 seggi alla Knesset. Questo uno dei risultati emersi in un sondaggio pubblicato nei giorni scorsi  dalla televisione commerciale Canale 13
Se quel sondaggio trovasse conferma, ha aggiunto la emittente, il partito centrista Blu Bianco di Benny Gantz sarebbe in grado di formare un governo di minoranza, col sostegno esterno della Lista araba unita.

L’atmosfera è già oggi  al calor bianco. Gantz ha ribadito che l’unico responsabile del ritorno alle urne non è altro che Netanyahu, deciso a ricorrere all’immunità parlamentare per evitare i processi. “Dobbiamo opporci a questo”, ha spiegato anche oggi l’ex generale, sostenendo che Blu-Bianco non può accettare un governo di unità nazionale insieme ad un Likud in cui ci sia un premier incriminato. Netanyahu ha ribaltato le accuse su Gantz. Il premier ha sostenuto che il leader di Blu-Bianco, nella sua ostinazione a rifiutare un governo di unità nazionale, è prigioniero dell’ala estrema del partito, capeggiata da Yair Lapid. La risposta di Lapid è una dichiarazione di guerra politica. Il co-leader di Kahol Lavan ha paragonato la retorica di Netanyahu a quella di un seguace del medico-colono di estrema destra Baruch Goldstein che il 25 febbraio 1994 aprì il fuoco contro un gruppo di musulmani in preghiera nella Tomba dei Patriarchi a Hebron, uccidendone 29 e ferendone altri 125. “Le parole che sono uscite dalla bocca di Netanyahu negli ultimi giorni sono istigazione alla violenza”, ha scandito Lapid davanti ai giornalisti israeliani. “Sono parole pronunciate da un seguace di Baruch Goldstein, non da un primo ministro. Finirà male. Anche lui sa che finirà male”. “Con ipocrisia, cinismo e veleno, è iniziata la terza stagione elettorale di Israele in un anno”, titolava Haaretz a commento dell’ennesima trattativa fallita.

E’ la notte della democrazia. I tempi dei “Grandi d’Israele” sono finiti. Oggi la scena è dominata da mezze figure. “Al peggio non c’è mai fine verrebbe da dire assistendo alla miserabile rappresentazione che il ceto, perché tale si è ridotto ad essere, politico sta offendo al Paese – dice Zeev Sternhell, il più autorevole storico israeliano – Non c’è uno straccio di visione, un ben che minimo confronto di idee, di programmi, tutto si riduce ad inappagate ambizioni personali, ad una insaziabile voracità di potere. Ci sarebbe bisogno di una rivolta morale, di uno scatto d’orgoglio nazionale, ma forse è solo una illusione. La politica non deve sperare che a risolvere la crisi di sistema in atto sia la magistratura”, aggiunge Sternhell. Quanto alla sinistra, “se vuole ancora ragione d’esistere – rimarca lo storico israeliano – deve smettere d’inseguire la destra sul suo terreno, ma farsi portatrice di una idea di cambiamento che sappia unire, mobilitare, creare entusiasmo soprattutto tra i giovani”. Incalza Yael Dayan: “Il senso di responsabilità impone di sbarrare la strada ad un governo delle destre, con o senza Netanyahu. Ma la sinistra, in tutte le sue declinazioni organizzate, è uscita con le ossa rotte dalle consultazioni elettorali succedutesi negli ultimi quindici anni, fino a toccare il fondo in quelle di aprile e settembre scorsi. Non è solo mancanza di leadership credibili, autorevoli. È che la sinistra ha smesso da tempo di essere empatica, incapace di entrare in sintonia con quella parte d’Israele più povera e, insieme più dinamica. Le politiche della destra hanno provocato gravissime faglie sociali, impoverendo una parte significativa del paese e, al tempo stesso, non investendo sull’Israele delle start up, sulla ricerca, l’innovazione. È un problema di radicamento ma credo soprattutto di visione, di capacità di immaginare un Israele altro da quello plasmato dalle destre. Una visione che avevano i padri fondatori d’Israele, che ha innervato il pionierismo sionista. Non è nostalgia del passato, anche se per età potrei indulgere a questo sentimento. Per fortuna anche alla veneranda età di ottant’anni continuo ad avere rapporti con tante ragazze e ragazzi splendidi, impegnati nel sociale, che non hanno rappresentanza politica. Non sono pochi, sa. Ma per portarli dalla propria parte, la sinistra dovrà lavorare sodo e con tempi non brevi.

“Comunque vada a finire, una cosa è certa: gli arabi israeliani hanno conquistato uno spazio centrale nella vita politica d’Israele. Non siamo più una riserva indiana, chiunque intenda governare il paese deve fare i conti con noi. Siamo diventati l’ossessione di Netanyahu e della destra più integralista. Per noi è una medaglia”, afferma  Ayman Odeh, presidente della Joint List, la Lista Araba unita che nelle elezioni del 17 settembre ha ottenuto tredici seggi, diventando la terza forza parlamentare alla Knesset. E i sondaggi danno la Joint List in crescita. Odio, colpi bassi. Accuse velenose come quelle scagliate non solo da Netanyahu, ma anche dal  leader di Yisrael Beiteinu, (destra nazionalista)  Avigdor Lieberman, che ha definito l’alleanza dei partiti arabi israeliani una “quinta colonna”, aggiungendo che questa definizione non va messa tra virgolette, ma intesa letteralmente.

“Quinta colonna di chi? – ribatte Odeh – Dei palestinesi, che la destra oltranzista vorrebbe spazzare via dalla West Bank, come se milioni di persone potessero essere cancellate con un tratto di penna o deportate in massa verso dove peraltro… Una pace giusta e duratura con i palestinesi, fondata sulla soluzione a due Stati, non è una concessione che Israele fa sulla base di un astratto principio di giustizia e legalità internazionale, tanto meno un cedimento ai “terroristi”. Riconoscere il diritto del popolo palestinese a vivere in uno Stato indipendente a fianco dello Stato d’Israele, è un investimento sul futuro che Israele fa per se stesso. Non esistono scorciatoie militari per dare soluzione al conflitto israelo-palestinese, l’unica via praticabile è quella del dialogo, del negoziato, del compromesso. Se questo per qualcuno vuol dire essere una “quinta colonna”, allora sì, lo siamo. Siamo la “quinta colonna” di una pace tra pari. Noi vogliamo vivere in un luogo pacifico basato sulla fine dell’occupazione, sulla creazione di uno stato palestinese accanto allo Stato di Israele, sulla vera uguaglianza, a livello civile e nazionale, sulla giustizia sociale e sicuramente sulla democrazia per tutti. Un’aspirazione che non potrà mai essere realizzata se al governo ci saranno ancora Netanyahu e le destre razziste. C’è bisogno di una discontinuità netta col passato. L’uscita di scena di Netanyahu è importante ma non basta per imprimere una svolta radicale nel governo d’Israele. Noi arabi israeliani non vogliamo essere tollerati, ma considerati cittadini d’‘Israele a tutti gli effetti, né più né meno degli ebrei israeliani. È questa la sfida che lanciamo. Ed è una sfida che investe l’essenza stessa della democrazia e dell’idea di nazione. A votarci, il 17 settembre, non sono stati solo gli arabi israeliani, ma tanti ebrei israeliani che condividono la nostra idea di democrazia, che si battono perché lo Stato d’Israele sia, a tutti gli effetti e su ogni piano, lo Stato degli Israeliani, ebrei e arabi. È la rivendicazione di un diritto di cittadinanza che supere le appartenenze comunitarie. Un governo che lavorasse per questo, sarebbe davvero un governo del cambiamento. Ed è su questa linea che andremo, di nuovo uniti, alle elezioni di marzo”.

Al voto mancano quaranta giorni. Giorni infuocati, su questo c’è assoluta condivisione tra gli analisti politici a Tel Aviv. Come c’è assoluta condivisione nel constatare come dall’agenda politica di tutti i maggiori contendenti sia scomparsa la “questione palestinese”. Come se il conflitto fosse stato risolto con la creazione della Barriera di sicurezza (il Muro dell’apartheid per i Palestinesi), e l’assedio, entrato nel suo dodicesimo anno), di Gaza. Ecco allora le destre arrivare a evocare, con il sostegno dell’amministrazione Trump, l’annessione delle Alture del Golan e la Valle del Giordano, in spregio alle risoluzioni delle Nazioni Unite. Quello palestinese è diventato per i politici israeliani, con rare eccezioni, un “popolo invisibile”. Ma quel popolo esiste, e al di là del Muro, cova una rabbia che può scatenare una terza Intifada. Un sentimento che alberga soprattutto tra i giovani palestinesi. Giovani senza Stato. Senza libertà. Senza futuro.

 

 

 

 

 

La vera minaccia è lui! È un primo ministro che fomenta odio e divisione, che con le sue parole intrise di odio arma ideologicamente e politicamente la mano alla destra più estrema. Netanyahu si comporta come un politico disperato, pronto a tutto pur di restare al centro della scena. Un comportamento indegno del leader di un partito, il Likud, che io ho sempre avversato ma a cui riconosco di essere stato, assieme al Partito laburista, per decenni un perno fondamentale del nostro sistema democratico. Begin e Sharon si rivolterebbero nella romba se potessero ascoltare le performance di Netanyahu.

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