Stiamo per superare la Calabria. A ovest il tirreno cosentino riluccica ai raggi del sole. A est paesi e chiese incastonate su un territorio che sale rapidamente. Qua e là sparse a volte armoniosamente, altre senza apparente senso, case non finite, forse da completare per dei figli che magari non ci vivranno mai, oppure per la pensione di qualche emigrante. Un regionale per Napoli illumina su mondi differenti, spesso dimenticati. È questa un’umanità semplice, però non per questo meno vera e importante, che condivide parte del viaggio insieme ai tanti immigrati che scendono e salgono a ogni fermata, con vestiti lunghi e inadatti ai quasi quaranta gradi esterni e alle lunghe camminate in spiaggia nel tentativo di vendere qualcosa – spiagge secondo alcuni da militarizzare per evitare un tale “indecoroso” spettacolo, in un’epoca in cui “l’invasione” viene dal mare, e la paura sembra avere il sopravvento su molto altro, inclusa la nostra stessa storia.
Queste terre ai confini meridionali dell’Europa possiedono un paio di caratteristiche fondamentali: il calore degli abitanti e dei luoghi va di pari passo con una percezione d’incompiutezza e impotenza generalizzata. Incompiutezza che ricorda quelle case senza intonaco. È come se ci fossero forze inarrestabili a frenare uno sviluppo che nei fatti esiste (pur se con forme e fasi diverse), al di la di una certa retorica nordica e di un vittimismo meridionale che ne è la risposta. Eppure resta un senso di: “poteva essere meglio”. Riflette quest’ultima parte della Calabria prima della Basilicata, con il suo sogno di diventare un centro del turismo internazionale, quando gli Agnelli avevano l’isola di Dino, i Marzotto una fabbrica, nessuno sembrava interessarsi ai tassi delle malattie tumorali, e l’Italia viveva anni frizzanti sorpassando la Gran Bretagna tra le potenze mondiali. Nonostante oggi i turisti (campani) siano più o meno rimasti, i sogni di grandezza si sono invece affievoliti di molto, malgrado la bellezza del posto, pure a causa di un mare, in alcuni punti, non sempre cristallino e di un mancato sviluppo generale.
I treni sono portatori di sogni e di bisogni. Un regionale, con le sue tante fermate, li moltiplica, facendo rallentare i pensieri, e il viaggio, al punto che sembrano rispecchiare la lentezza dello stesso Meridione. Dopo la Calabria, Maratea e il suo Cristo, poi la bassa Campania, Paestum con i suoi templi, e via dicendo. Il cambio treno a Napoli genera l’impressione di un fiorire di prospettive nuove, modernità, e reali ambizioni. Sedili di pelle, 250 km di velocità, borse da manager, computer portatili e finanza. “Frecciarossa” come l’Italia che corre veloce modernizzando le ferrovie grazie ai tagli e alla chiusura delle stazioni periferiche, come se alcuni piccoli paesi non avessero diritto a un’anima e ai trasporti.
Il treno raggiunge Roma, e qui per alcuni inizia l’Italia vera, un’altra nazione, quella che conta, legata alle istituzioni oltre che all’Europa. Peccato che i fatti recenti, da Mafia Capitale in poi, non facciano altro che confermare come essa sia una grande capitale del sud. Bella, sublime e decadente. Con i treni superveloci per il nord produttivo. Specchio della nazione. Caput mundi senza impero e senza governi a interessarsene. Da preservare. E da migliorare. Come tutto il Sud del resto.
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