È toccato, paradossalmente, ad un politico greco, Dimitris Avramopoulos, commissario europeo per le politiche di migrazione e affari interni, dover spiegare, ieri una conferenza stampa al termine della riunione dei Ministri degli Interni dell’Unione, che l’Europa praticamente non esiste. Non esiste su una questione decisiva, perché sul fronte dell’immigrazione e degli sbarchi l’Unione si gioca due battaglie campali. Quella agli estremismi che si cibano della voglia strisciante di tanti elettori di chiudersi nel proprio territorio. E quella della costruzione della sua stessa identità perché l’Unione continuerà a rimanere incompiuta fino a quando non ci sarà un’unica frontiera e le stesse regole di ingaggio nei confronti delle centinaia di migliaia di persone che chiedono di entrarvi da un vicinato in fiamme.
Ma l’Unione siamo noi. È la somma della debolezza di ventotto società. E neanche l’Italia – il Paese più esposto alla valanga – è in grado oggi di concepire una strategia che sia in grado di distinguere le preoccupazioni vere dagli allarmi strumentali.
FranklinD. Roosevelt, il Presidente più importante della storia degli Stati Uniti, diceva a proposito degli immigrati (e in difesa, anche, di quegli italiani che erano tra i più discriminati) che tutti in quel Paese discendono da chi è fuggito dalla carestia o dalla guerra. Ma gli americani sono anche quelli che hanno i controlli più severi e sono stati anche i primi a portare avanti processi di attrazione selettiva di immigrati con specifiche competenze. Nella gestione della contraddizione tra la consapevolezza che senza migrazioni un Paese semplicemente non cresce, e la constatazione dei guai che può produrre un’immigrazione non governata, è possibile trovare la soluzione al problema che agitiamo senza affrontarlo.
Ha ragione Salvini quando attacca a testa bassa un “buonismo” senza prospettiva che non riesce neanche a curare i sintomi del problema e anzi crea involontariamente i presupposti per la nascita di un business governato dalla criminalità organizzata. Ha torto, invece, quando cavalca sensazioni che sono il riflesso di una condizione molto più diffusa di impotenza che molti sentono nei confronti di un mondo che non riescono più neppure a capire. Proviamo a distinguere, dunque.
Non è vero,che siamo in presenza di un’invasione. E ancor meno vero è che si tratta di un’invasione di mussulmani. Anche se non sarebbe la prima volta che ciò avviene nel Mediterraneo e non sempre tale fenomeno ha portato con se sciagure planetarie,come dimostrano in abbondanza le moschee di Palermo e le cattedrali cristiane a Damasco.
Gli stranieri residenti in Italia sono circa cinque milioni, l’otto per cento della popolazione, una percentuale del 50% più bassa di quella che si registra in Germania, in Francia o in Inghilterra. Tra gli immigrati, la nazionalità più rappresentata è quella dei rumeni che sono cristiani ecittadini dell’Unione Europea; ci sono, poi, settecentomila albanesi e i cinesi che sono in maggioranza atei; solo al quarto posto c’è la prima comunità islamica, quella degli immigrati provenienti dal Marocco. Ancora più strumentale è l’allarme terrorismo collegato agli sbarchi: è esclusoche terroristi il cui addestramento costa centinaia di migliaia di euro, vengano affidati a viaggi rischiosissimi per la loro incolumità per arrivare in Italia; anche perché quelli che colpiscono Parigi o Copenaghen sono già comodamente cittadini dei Paesi che attaccano.
Non è vero poi che gli immigrati fanno concorrenza agli italiani e che, dunque, con la disoccupazione al 12%, non possiamo permetterceli. Lo dicono i numeri, ma anche la quotidianità. Gli immigrati fanno quei lavori (babysitter, badanti, negozi aperti 24 ore, muratori, idraulici) per i quali sono pochi e sempre di meno gli italiani che si candidano (nonostante la crisi). È vero invece che gli immigrati sono indispensabili per mantenere il nostro welfare: un cittadino italiano su tre è titolare di un assegno pensionistico; tra gli immigrati sono meno di uno su trenta ed essendo mediamente molto più giovani, essi lavorano, di fatto, per finanziare con i contributi il mantenimento di un sistema pensionistico che è, nonostante vent’anni di riforme, ancora il più costoso d’Europa.
È vero, invece, che più di un terzo delle persone ospitate dalle super affollate carceri italiane sono stranieri; è altrettanto vero, però, che il 90% di chi finisce in quell’inferno è in attesa di giudizio e che molti stranieri – mediamente più indigenti – non riescono a farsi difendere da un avvocato e ad evitare la carcerazione preventiva.
Ma lo sbaglio più grosso che si faè quello di confondere problemi tra di loro assai diversi: l’immigrazione per motivi di lavoro; mentre gli sbarchi riguardano in maniera quasi esclusiva chi chiede asilo e scappa da guerre civili come quella in Siria o da Paesi che si sono dissolti come la Libia.
Esiste l’immigrazione ed essa è un fenomeno con tassi di crescita in diminuzione (e con una diminuzione, secondo ISTAT,nel numero dei clandestini, nonostante l’aumento della popolazione immigrata). Ed esiste la questione degli sbarchi che, invece, risulta esplodere (nel 2014 ci sono stati centosettantamila sbarchi) ed è non governata sia per responsabilità europee che italiane.
Sulla questione degli sbarchi esistono, anzi, domande alla quali dovremmo trovare – tra le nebbie delle urla dei salotti televisivi – risposte urgenti. Perché tutti i profughi arrivano a Lampedusa? Come mai arrivano in Italia i disperati che fuggono dalla Siria, anche se la lettura di una semplice carta geografica dice che ci sarebbero decine di approdi che potrebbero fargli risparmiare centinaia di miglia nautiche, di stenti e di pericoli mortali? Com’è possibile che, persino, su una cosa così esplosiva come l’accoglienza dei profughi, siamo riusciti a produrre gare truccate e a farne un business che, secondo alcuni dei mafiosi romani, è diventato più grande dello spaccio di droga? Che senso ha un’Europa che non riesce, neppure, a costruire un unico sistema europeo di esame delle pratiche per la concessione dell’asilo – come, in realtà, ha chiesto l’Italia, con il sottosegretario Sandro Gozi – che sia sufficientemente veloce da rendere brevissimi i soggiorni nei centri di accoglienza (visto che più solo un terzo degli individui sbarcati in Italia lo scorso annoha fatto richiesta di rimanere da noi e gli altri provano a raggiungere i propri familiari in Paesi come Germania e Svezia che ospitano molti più profughi)? A cosa serve l’operazione Triton che costerà anche meno di Mare Nostrum visto che il suo obiettivo è “monitorare”, e però l’urgenza assoluta è salvare vite umane e arrestare i trafficanti per mandare un messaggio forte e chiaro a chi lucra sulla tragedia?
La questione degli sbarchi è certamente una delle dimostrazioni più drammatiche della nostra incapacità di governare le crisi prima che ci piovano addosso. Rimanda anche all’abdicazione da parte dell’Europa e dell’Italia di intervenire in contesti vicinissimi che si deteriorano sotto gli occhi della nostra intelligence e che diventano priorità solo quando diventano notizia di prima pagina sui giornali. La risposta deve essere – e ci riusciamo molto poco su diversi fronti – assolutamente pragmatica, forte e di respiro non breve. Altrimenti rimarrà la paura di società che si chiudono per difendersi e l’estremismo occuperà lo spazio che doveva essere della politica.
Articolo pubblicato su Il Messaggero del 13 Marzo