“Separare i cattolici dal Papa”. L’intervista del cardinal Bassetti è importantissima e va ben capita. Per riuscirci occorre entrare nel senso di quel che lui ha detto: cosa significa davvero separare i cattolici dal Papa?
Quando si parla di Chiesa cattolica non si può non considerare che sono due i nomi, gli apostoli, ai quali essa si riferisce: Pietro e Paolo. La successione apostolica di norma indica un apostolo, nel caso di Roma abbiamo due nomi quasi inseparabili. Il primo è l’apostolo della successione, il papa è il successore di Pietro, non di Paolo, e quindi Pietro indica l’autorità, scegliendo un certo linguaggio potremmo dire la verità, il potere, l’autorità. Paolo no, Paolo indica l’universalità, quella che i cattolici chiamano la “missio ad gentes” della Chiesa. San Paolo andava ovunque, da tutti. E’ Paolo, si dice sempre, che ha reso universale il cristianesimo. Quando arrivano alla successione di Pietro papi di chiaro orientamento paolino, come fu Paolo VI e come è oggi Francesco, i custodi dell’ortodossia, gli autoritari, quelli convinti che la Chiesa sia un giudice eterno al di fuori e al di sopra della storia, si sentono stretti, in difficoltà. Lo stesso Giovanni Paolo II dell’enciclica “Novo Millennio ineunte”, dei viaggi, del dialogo interreligioso, li spiazzava, li preoccupava. Nell’enciclica citata Giovanni Paolo II sembra tracciare il ritratto di Francesco quando parla della linea che la Chiesa dovrà scegliere per incamminarsi nel terzo millennio. Ma quando è morto Giovanni Paolo II la Chiesa non si è sentita pronta a imboccare quella strada. I ritardi della sinistra globale, del liberalesimo globale, l’hanno trattenuta davanti alle sfide delle cosiddette “libertà positive”: io posso abortire, io posso cambiare sesso, io posso sposare una persona dello stesso mio sesso, io posso scegliere di morire. Per quella Chiesa convinta che la verità eterna sulla famiglia sia iscritta nei Vangeli, occorreva combattere. Il rischio più vasto era quello di consegnare le società cristiane all’ “io sovrano”. Nell’epoca preconciliare, quando la Chiesa doveva attendere Pio XII per riconoscere a denti stretti la liceità dei metodi contraccettivi naturali tra coniugi, quelle sulle libertà civili erano una battaglia di civiltà. E i liberal? I progressisti? Inconsapevoli che il superamento dell’ordine reazionario, al tempo si diceva “clericofascista”, stava facendo affermare un profondo ripensamento cattolico e anche una globalizzazione capitalista nella quale quelle libertà, se vissute in modo edonista e consumista, erano ben viste, i liberal e i progressisti non hanno capito che un nuovo terreno d’incontro era possibile nel nome della libertà di coscienza e della solidarietà, sociale e globale. Così i ritardi dei liberal, o radical, sembrano aver influito sui ritardi cattolici, che con Papa Benedetto hanno anteposto, come i loro contraddittori, la battaglia di ieri. In certo senso possiamo dire che il terzo millennio è cominciato senza accorgersi di essere in un millennio nuovo, proseguendo il confronto del Novecento. E la globalizzazione è sfuggita di mano. Come la grande occasione di un nuovo incontro era arrivata con il pontificato paolino di Paolo VI, le dimissioni rivoluzionarie, quelle di Benedetto XVI, hanno ridotto lo iato cattolico con il terzo millennio e il loro frutto, Francesco, può essere definito oltre che un frutto paolino anche interprete del terzo millennio. E non poteva che portare con sé non il tema dei diritti civili, ma quello dei diritti sociali. La globalizzazione finanziaria, disponibile all’incontro con ogni libertà in termini di consumo, può accettare anche i diritti civili, se comporta però il pensionamento dei diritti sociali. I poveri sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi sono il suo brodo elitario. Inconsapevole di questa nuova realtà, i liberal hanno lasciato che la finanza distruggesse il liberalismo stesso, nel nome del liberismo economico o per meglio dire finanziario, quello che pensa ai mercati come ad un supermercato, dove le merci e le speculazioni sono libere di circolare, ma non i clienti, circolanti solo se in possesso di carta oro. Il magistero paolino di Francesco ha riportato nel suo giusto alveo la questione dei diritti civili, con un approccio misericordioso certamente, ma non centralizzante. Al centro c’è la dignità di ciascuno. E’ la Chiesa ad gentes, quindi la Chiesa in uscita, la Chiesa dei poveri. Non nostalgica del suo ruolo di giudice al di sopra della storia, la visione ad gentes di Francesco la porta dentro la storia, nella storia, accanto ai suoi contemporanei. E quindi accanto ai poveri. Che per questa Chiesa universale sono tutti i poveri, in primis i più poveri, per esempio i bambini delle miniere di cobalto africane; dodici ore di lavoro al giorno per un paio di dollari, forse.
Il pontificato di Francesco può essere visto come il tentativo del cattolicesimo di restituire un’anima alla globalizzazione, denunciando che questa economia “uccide!” e ricordando che la globalizzazione deve essere poliedrica, non uniformante. I centri commerciali, i mall, gli shopping center sono loro questa città globale, uguale in tutto il mondo, con gli stessi identici prodotti: questa città globale esiste in tutte le città locali e il suo magnete monopolizza il divertimento, lo svago, la spesa, lasciando al di là dei propri confini, nelle mille città locali, solo emarginazione, solitudine, spaccio. Chi ha detto questo era arcivescovo di Buenos Aires. E lo ha ripetuto da Papa, tendendo la mano salvifica ai liberali, ai presunti custodi dell’ordine liberale e quindi pluralista. Ma il suo interlocutore era morente, era morente per via della sua assenza dalle città locali, per la sua convinzione che la vita fosse quella della città globale e basta. Ma gli uomini in carne ed ossa vivono nella città locale, negli shopping center ci vanno qualche ora, per dimenticare. Ma non possono dimenticare e basta. E infatti la nuova rivoluzione li ha rappresentati. Perché quando è scoppiata si sono ricordati della loro rabbia contro la globalizzazione reale, più che giustificata. Questa rivoluzione soffia sui loro animi agitati per portarli in un altro paradiso artificiale, quello dei nazionalismi, cioè lo stesso paradiso che ha dato i natali alla tanto decantata modernità. La sua formula è presto diventata in realtà “cuius regio eius natio”, ma in realtà quella formula era “cuius regio eius religio” e quindi la società che si prefigurava era la “società perfetta” della fede e delle sue leggi nello stato nazione del principe, nel nostro caso cattolico. E’ stato l’uomo della nuova società, quella in cui lavorano anche le donne ad esempio, a chiedere il riconoscimento dei suoi diritti a un Chiesa che parlava dei diritti sì, ma quelli di Dio, non quelli dell’uomo. Questi compariranno nel lessico pontificio con Giovanni XXIII e la Pacem in Terris, quando i nazionalismi e il loro bagaglio reazionario avranno finito di distruggere l’Europa. Nella nuova rivoluzione come nelle nazioni di allora le cause di ogni male sono gli altri, l’altro. Questo nazionalismo odierno non è contro le multinazionali, i mercati globali, la finanza speculativa e le sue rendite costruite senza investire, senza costruire, senza impresa. No. E’ contro l’altro povero, è contro gli altri Stati. Vive dello scontro di civiltà come ideologia per dirci che dobbiamo difenderci, e che solo difendendoci torneremo grandi. Le armi sono un suo motore ideologico e anche economico. Ma è la nazione il suo mantra, e quindi la nazionalizzazione dei cattolici. La fede va nazionalizzata, e la stessa solidarietà va nazionalizzata. Davanti alla globalizzazione reale si propone un nazionalismo che non può separarsi dalla religione, anzi, deve impossessarsene. Ecco la vera separazione dei cattolici dal Papa, è la separazione dei cattolici di un paese dal resto del mondo cattolico, dagli altri fratelli. Un cattolicesimo non più universale, ma nazionale e nazionalista.
Ed ecco l’intervista del cardinale Bassetti, presidente del vescovi italiani, che coglie questo pericolo. Quando dice che si vogliono separare i cattolici dal Papa dice che si vogliono creare delle religioni nazionali, facendo del cristianesimo e nello specifico del cattolicesimo italiano una religione civile, che sacralizza i poteri politici. I quali sono impegnati a legittimarsi con il combattere l’altro, richiamandoci all’antico tribalismo che più conosciamo e Soros è il simbolo mondiale prescelto per riportare a galla un pericolo. Il cardinal Bassetti coglie dunque il punto, ma i vescovi che guida sono pronti non solo a seguire ma in qualche caso a precedere Francesco? Non può essere il papa a svelare a polacchi e italiani che l’uso del rosario in piazze politiche o contro i migranti strumentalizza il mito del miracolo di Lepanto e piega a un nuovo pregiudizio anti islamico una vicenda, quella del rosario e delle novene per la vittoria nella battaglia di Lepanto, che non era contro l’Islam, ma contro il Sultano, lo stesso Sultano a lungo alleato di Venezia o dei francesi, o degli imperi centrali nella Grande Guerra. Possono invece gli episcopati locali difendere la storia e il suo senso, a cominciare dal rosario, oggetto di riflessioni importanti nel Concilio Vaticano II. La questione non è solo di “uso dei simboli religiosi”, ma di loro interpretazione e nazionalizzazione, contro.
La sfida di Francesco dal giorno della sua elezione è la sfida di chi vuole salvarci dalla riproduzione nel terzo millennio degli anni 20 del secolo scorso. Occorre davvero andare incontro alla gente, e la Chiesa deve sapere che in questo suo “uscire” avrebbe solo il Vangelo con sé: i suoi naturali alleati, i custodi di un ordine liberale e quindi pluralista, riguardoso dell’altro e della giustizia sociale, hanno segato con le loro stesse mani il ramo su cui governavano la nostra cultura dalla fine della seconda guerra mondiale. Dunque nella sfida di Francesco sarebbero gli episcopati a dover diventare “episcopati in uscita” per evitare che si nazionalizzi la fede, per spiegare il canto delle nuove sirene a un mondo cattolico scosso come le società in cui vive dagli errori delle elités nel recente del passato. Contro questa globalizzazione irriguardosa c’è questo nazionalismo estremo e contro il globalismo c’è la nazionalizzazione della solidarietà, con slogan come America First. Ma a separare i cattolici, o tanti cattolici, dal Papa, non è la natura dei credenti, ma il potenziale esplosivo della rabbia cresciuta contro la globalizzazione reale e contro l’oblio in cui la sinistra e i liberal hanno avvolto i diritti sociali. Hanno pensato di conquistarci dicendoci che ci vogliono liberi di, ma si sono dimenticati che prima di tutto vogliamo essere liberi da. Liberi dalla fama, liberi dalla corruzione, liberi dall’emarginazione, liberi dallo schiavismo, liberi dalla sete, liberi dalle guerre, liberi dall’inquinamento, liberi da tutto questo. Il senso più profondo delle parole del cardinal Bassetti è una chiamata agli episcopati a uscire, per contrastare loro la nazionalizzazione della solidarietà, grimaldello del disegno di separare i cattolici dal loro pastore universale.