Quando Napoleone Bonaparte scappò dall’Elba i giornali francesi titolarono: “Il recluso Bonaparte evade dalla sua prigione”. Man mano che apparve chiaro che Napoleone puntava a tornare a Parigi per riprendersi il potere, la stampa d’Oltralpe mitigò i toni fino a quando annunciò: “L’imperatore fa il suo ingresso trionfale nella capitale”. Lo stesso atteggiamento è stato usato dalla stampa nei confronti di Donald Trump, che un giorno prima di diventare presidente degli Stati Uniti era stato citato sempre per epiteti ingiuriosi: dal morbido “tycoon” ai più spregevoli “razzista”, “sessista”, “evasore”. La Cnn, alla certezza dell’elezione, ha modificato i titoli del suo sito web cancellando ogni frase irriguardosa e il New York Times, che aveva appena pubblicato tre pagine riportando tutte le menzogne del candidato repubblicano, si è ravveduto con una penosa ammissione di colpa.
Giornali e televisioni hanno cominciato a celebrare il nuovo presidente tributandogli i primi onori e con essi anche i primi omaggi. In Italia l’imbarazzo è stato palpabile. Da Renzi in giù si sono sentite giustificazioni di ogni tipo sull’errore di valutazione commesso, sui pronostici sbagliati e sul tifo fatto per il candidato perdente. Insieme con la stampa, anche l’opinione pubblica, che è una forma immateriale di establishment, ha vissuto il suo momento peggiore. Nessuno pare che nei tink thank abbia capito niente, sondaggi compresi.
Il fenomeno ha la stessa portata e gravità di un improvviso crollo in Borsa e induce a ripensare il sistema delle comunicazioni, delle analisi e delle influenze sulle masse come finora lo conosciamo. Al regime dei condizionamenti dei mass-media si è di colpo sostituito il primato del mass-cult, un’opinione che non si lascia determinare e che cresce spontanea seguendo un nuovo modello di globalizzazione, non più basato sulle merci ma sulle idee. Quanto è successo negli Usa risponde infatti a un sentimento diffuso nell’intero Occidente cristiano, accomunato dalle stesse frustrazioni e dagli stessi problemi oltre che dagli stessi conati di ripulsa verso ogni elemento straniero.
A parte l’aspetto xenofobo, la presa di coscienza finalmente giunta delle popolazioni riunite in una Internazionale auspicata da un secolo e mezzo va vista come un’affermazione su principi nuovi della forma di stato democratica. In più come l’insorgenza di una fede ecumenica che si riconosce attorno a valori condivisi quali il nazionalismo, la lotta di classe, le rivendicazioni dei ceti deboli, il rifiuto di ogni blocco di potere dominante: terreni sui quali fino agli anni Ottanta scendevano solo studenti e operai schierandosi a destra e a sinistra inneggiando a ideali contrapposti. Dopo Brexit, i referendum nazionali contro l’Europa, i grillini in Italia, l’escalation della Destra in Francia e infine Trump, il percorso di emancipazione delle classi deboli occidentali sembra giunto a compimento. All’insaputa della stampa e dell’opinione pubblica, ma con grandi incognite.
Il miliardario Trump è infatti la persona meno adatta a interpretare i bisogni della gente, epperò è stato l’unico ad aver parlato il linguaggio dell’America profonda e marginale allestendo non un apparato di partito in qualche modo repubblicano ma un vero e proprio movimento popolare, anzi populista, che molto da vicino ricorda quello grillino: indicando quale sarà la strada del prossimo futuro lungo la quale il populismo, come corriva accondiscendenza di personalità forti nei confronti delle istanze delle masse deboli, appare il modo nuovo di fare politica. Con la preclusione però fissata dal filosofo Merleau-Ponty per il quale il movimento che diventa istituzione si tradisce e si sfigura, perché ogni rivoluzione che assume il potere si traduce in un potere non diverso da quelli che ha abbattuto. Così è stato per i giacobini francesi, i leninisti sovietici e i grillini che arrivati al governo delle città si sono conformati all’esercizio del potere canonico che non ammette deroghe. Con il rischio reale che una democrazia (giunta al massimo della sua espressione come nel caso dell’elezione di Trump dove la massa elettorale ha fatto a meno di ogni mediazione) si muti in una oligarchia che è la minaccia ineludibile incombente su ogni sincera battaglia per il miglioramento delle condizioni sociali di una nazione, una più equa distribuzione della ricchezza e l’irrinunciabile ricerca della felicità.
IL SOTTOSCRITTO