Fra i dualismi che contraddistinguono la tradizione filosofica occidentale, cioè la metafisica, il più essenziale e originario è forse quello di anima e corpo: di una parte “alta”, considerata “scintilla del divino” che è in noi; e di una “bassa”, legata alla corporeità e a tutto ciò che inesorabilmente perirà col tempo. Bene perciò ha fatto Ernesto Galli Della Loggia, nell’articolo che commentavamo ieri, a mettere in luce anche questo aspetto dello stimolante ultimo libro di Roberto Esposito. Ciò che va in prima istanza osservato è che questo dualismo non appartiene unicamente alla matrice giudaico-cristiana del nostro pensiero, ma anche a quella greca o pagana. In effetti, come ha messo in luce Friedrich Nietzsche, lo spirito dei greci aveva due radici: accanto a quella dionisiaca, era forte e operante una matrice apollinea che, ad un certo punto, diciamo dal V secolo a.C., prese il sopravvento e originò, fra l’altro, le grandi filosofie di Platone e Aristotele. Il cristianesimo, istituzionalizzandosi e diventando teologia e dommatica, si inserirà in questo filone di pensiero già compatto senza troppe difficoltà, ponendosi come continuazione di esso. Non è perciò da meravigliarsi del fatto che, nel Medioevo, esisteranno un cristianesimo platonico ed uno aristotelico: il Dio dei due grandi padri della filosofia greca, pur nelle differenze notevoli del loro pensiero, è assimilabile al Dio dello spiritualismo cristiano (è anche vero che il cristianesimo, per un’altra sua parte, può essere considerato oltre questa distinzione fra anima e corpo, ma è un discorso molto filosofico che ci ripromettiamo di fare in diversa occasione). Detto questo, vorrei insistere qui sul fatto che un implacabile critico della tradizione spiritualistica della nostra cultura, e quindi anche e soprattutto del dualismo tra anima e corpo, fu proprio Nietzsche. Il quale tuttavia, nel perorare forte le “ragioni del corpo”, poteva destare adito ad un equivoco: quello cioè che, per superare il dualismo, potesse bastare semplicemente invertire i termini del rapporto, facendo del corpo l’elemento o il polo relazionale predominante. Per andare veramente oltre di esso occorreva invece pensare tenendo sempre insieme, in tensione dialettica, i due poli: in una sintesi, che è poi l’uomo concreto secolarizzato, in cui il corpo è un corpo spiritualizzato e l’anima un’anima incarnata. Benedetto Croce è stato nel Novecento uno di coloro che più a fondo si è spinto in questa non facile direzione. Ma non solo, come si sarebbe portati a credere, a conclusione del suo tragitto di pensiero, con l’elaborazione della “categoria” del Vitale, ma fin dall’inizio. Una delle categorie centrali della sua Estetica del 1902, la quale ebbe un effetto dirompente non solo nella cultura italiana ma anche in quella europea, fu l’equivalenza stabilita di intuizione ed espressione. Bene, dire che in tanto si intuisce in quanto si esprime, in un processo unico di pensiero-azione, interiorizzazione-esteriorizzazione, significa proprio porsi il problema di corrispondere ad un’immanenza integrale oltre ogni dualismo. Non eliminando le polarità contrapposte del rapporto duale, in un afflato mistico o in qualcosa d’altro (che mi sembra essere la via indicata da Esposito), ma considerandole come elementi sempre in movimento di una sintesi in atto e sempre parziale e provvisoria. A ciò va aggiunto, ancora più radicalmente, che stabilire l’equivalenza intuizione-espressione (passo fino a cui mai nessuno prima si era spinto) significa dire e dimostrare, come si evince da alcuni esempi che Croce fa, che psiche e soma, riflessione interiore e postura e gestualità esterne (stile), sono parti di un unicum in cui non c’è un signore e né un servo. La via tracciata da Croce si ricongiunge pertanto, a mia avviso, per questa parte, a quella della fisiognomica. Una scienza che aveva avuto una lunga tradizione nella cultura italiana e che certe esagerazioni deterministiche del positivismo avevano portato ingiustamente in discredito. E le cui elaborazioni andrebbero forse recuperate, anche e solo per criticarle e superarle. Mi auguro che la ripubblicazione per Bompiani de L’uomo delinquente di Cesare Lombroso solleciti anche questo genere di riflessioni (aiutando anche a porre storicamente in modo più compiuto il rapporto fra Croce e il positivismo, pur senza giungere alle tesi “continuistiche” di uno studioso serio come Ferruccio Focher e persino di Vittorio Matth
CROCE E DELIZIE