C’è un riscatto possibile per il Sud? Non si direbbe, almeno a giudicare da quel che si vede al cinema o in televisione. Se Gomorra di Roberto Saviano e il film omonimo di Matteo Garrone – qualche anno fa – furono una denuncia impietosa del degrado criminale, il “gomorrismo” che ne è derivato rischia di confermare alcuni dei luoghi comuni sul Mezzogiorno. Si rinverdisce così la suggestione coniata da Pievano Arlotto, presbitero toscano del 1400, per il quale Napoli era “un paradiso abitato da diavoli”; una definizione ripresa nel ‘900 da Benedetto Croce. E’ lo stereotipo – ma anche l’alibi – che appaga e paradossalmente tranquillizza l’opinione pubblica, ignara delle tormentate sfaccettature della storia partenopea scandagliate da Croce. Infatti, si potrà ben fare una capatina estiva da Mefistofele per bagnarsi con i bambini nelle azzurrissime acque dell’Inferno (titolo di un viaggio al Sud di Giorgio Bocca), o, viceversa, abitare tutto l’anno nell’incanto meridiano lamentandosi del vicino sulfureo, del camorrista cattivo, del politico corrotto e del disservizio “impensabile nel Settentrione”.
Un nuovo capitolo della saga infinita sul Meridione s’intitola Anime nere ed è stato presentato ieri in concorso alla Mostra di Venezia. E’ un piccolo e interessante film del quarantenne Francesco Munzi, liberamente tratto da un romanzo di Gioacchino Criaco (Rubbettino ed,), che sarà nelle sale a partire dal 18 settembre. Ambientato in Calabria ed in particolare nella Locride di Africo, il paese cui Corrado Stajano dedicò un memorabile libro negli anni ’70, Anime nere mostra il persistere del cosiddetto “familismo amorale”. Parliamo del concetto che il sociologo statunitense Edward C. Banfield mise a punto nel corso di una storica ricerca sul campo nella Lucania di fine anni ’50, dove riscontrò un eccesso di legami familiari ai danni dello Stato, dei beni comuni, dell’interesse collettivo.
Altrove potete leggere la recensione del film di Munzi. Qui mette conto segnalarne il contesto di un Sud tribale, clanico e pastorizio, in cui non manca il rituale abigeatario del furto di due agnelli non per fame, ma per gioco simbolico. Un Sud serrato fra i monti e, naturalmente, in mano alla ’ndrangheta che si divide in famiglie ed estende i suoi traffici e le sue finanze a Milano e oltreconfine. Da una parte, quindi, c’è un’antropologia culturale arcaica e pre-industriale, dall’altra una modernità criminale che esporta altrove l’organizzazione e i proventi. Le cronache di questi ultimi anni ci dicono che è uno scenario realistico. Ma non è altrettanto corrispondente alla realtà un Sud di cui si mostra solo il cuore di pietra tra l’Aspromonte e il mare. La Calabria stessa è molto più sfaccettata, spigolosa, contraddittoria, non immune dal mondo contemporaneo di cui, anzi, ripropone la perenne incompiutezza, a cominciare da quella dei fabbricati lasciati grezzi o dei pilastri che svettano verso il nulla, nell’attesa del piano che verrà (ne mostrò alcuni Mario Martone, a mo’ di scenografie “senza tempo” nell’Ottocento pre-unitario di Noi credevamo). Certo, Anime nere si sforza di sottrarsi al canone televisivo della mafia in cui i cattivi trionfano fino all’inopinato arrivo dell’eroe di turno (non sempre). Allo stesso tempo non lascia speranza alcuna nel finale. Fra i tre fratelli protagonisti della storia, il più grande e il meno malvagio – provato dalla perdita dei congiunti nell’ennesima faida – fa implodere il micromondo del familismo con un folle gesto di sangue. Non c’è ricorso all’esterno, alla legge o alla chimera della “società civile”, bensì una tragedia portata a compimento. Se non c’è via di uscita, tanto vale non cercarla.
Ma davvero non c’è via di uscita? Di là dal valore del film di Munzi, non è detto sia così. Il pericolo che si avverte oggi è di adagiarsi nella rassegnazione, paralizzati tra il Sud edenico di certi paesaggi cari a Montalbano o della pizzica salentina che incredibilmente risuona persino in una scena festosa di Anime nere e il Sud senza scampo della mafia, dell’ndrangheta, della camorra e, appunto, del facile “gomorrismo”. Eppure “solo” mezzo secolo fa, il Sud elaborava il lutto del passaggio dalla civiltà contadina all’Italia del boom grazie al cinema e alla poesia di Pasolini, di cui nei prossimi giorni a Venezia si parlerà tantissimo per le celebrazioni del cinquantenario del Vangelo secondo Matteo girato tra Matera e la Puglia e, soprattutto, per l’atteso film biografico di Abel Ferrara sull’autore assassinato nel 1975.
Né c’era soltanto la voce di Pasolini. Nel documentario La zuppa del demonio, realizzato da Davide Ferrario con i materiali dell’Archivio del Cinema d’Impresa di Ivrea (sugli schermi della Mostra il 2 settembre), vibra con vigore la parabola dell’Italia industriale del XX secolo, all’insegna di una nostalgia per quel futuro che da tempo abbiamo smesso di coltivare. “La zuppa del demonio” è una locuzione di Dino Buzzati per descrivere gli altiforni di Taranto nel film Il pianeta acciaio di Emilio Marsili (1962), del quale Ferrario ripropone alcune sequenze. Idem per Acciaio tra gli ulivi di Giovanni Paolucci che racconta con una superba carrellata “aerea”, sempre nel 1962, la costruzione del tubificio di Taranto, primo elemento del centro siderurgico Italsider, con un commento di Domenico Rea sull’orgoglio di fabbrica (riferito però soprattutto a Bagnoli).
Il cinema industriale recuperato da Ferrario mostra di quale tempra fosse capace l’Italia e anche il Sud oggi inerte. Operai con gli occhiali da sole, in bicicletta, più fighi dei modelli Armani di trent’anni dopo. Grandi scrittori – Volponi, Bianciardi, Fortini, Calvino, Del Buono, Pomilio – lì a misurarsi con la fabbrica o l’autostrada. E Ivrea ancora olivettiana. E le facce mostrate da Ermanno Olmi. E grandi musicisti come Nascimbene e Vlad che compongono le colonne sonore per i cortometraggi aziendali. Quello spirito dimostra che non sempre tutto fu rinuncia o dimissione e che il familismo amorale allora aveva un controcanto in uno sviluppo magari equivoco (come sostenne Pasolini che lo distingueva dal “progresso”), tuttavia per certi versi liberatorio.
D’altronde, persino in un Sud più profondo del nostro, c’è sempre un’alternativa, una possibilità di riscatto, un uomo in rivolta nel segno/sogno della libertà. Accade fra le montagne desertiche dell’Atlante algerino “lontano dagli uomini” di un film del francese David Oelhoffen (Loin des hommes, domani in concorso a Venezia). Ispirato al breve racconto L’ospite di Albert Camus, racconta di un solitario insegnante (Viggo Mortensen) e di un suo compagno di viaggio berbero, contro tutto e tutti, mentre scoppia la guerra d’indipendenza algerina nel 1954. C’è sempre una scelta, ci dice Camus, che di sé scriveva: “Venni messo a metà strada fra la miseria e il sole. La miseria mi impedì di credere che tutto sia bene sotto il sole e nella storia; il sole mi insegnò che la storia non è tutto”. Quel suo “sole invincibile” più forte del male e delle anime nere. Perché abbiamo smesso di guardarlo?
Articolo pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 30 agosto 2014
Sono d’accordo che la Calabria con le sue sfaccettature non è di meno al mondo contemporaneo. Correggo la scena in Anime nere di cui si cita la pizzica salentina ma trattasi di tarantella grecanica, forse la meno conosciuta ma di certo la più arcaica. Infine che dire del libro di Giorgo Bocca? Non ha idea di come è strutturato l’Aspromonte, a cominciare se trattasi di una montagna o di una catena montuosa. Figuriamoci il resto.