Che cosa costituisce l’identità italiana oltre i confini? Il cinema vi gioca un ruolo non secondario, come ha ribadito il premio Oscar attribuito di recente al «felliniano» La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Dappertutto, a molti sarà capitato di sentirsi definire italiani – o di definirli – con poche, icastiche parole, che non di rado sono cinematografiche. Italia? «Dolce vita, Fellini». Italia? «Neorealismo». Italia? «Sophia Loren». Sono icone che vanno ben oltre lo schermo, battezzando un paese nel segno della fantasia e della vitalità, o del riscatto da stagioni avverse (la Loren «ciociara»). La moda, il cibo, il cinema, e da sempre l’opera, agiscono con efficacia in una dimensione profonda, ben di là dal consumo del singolo prodotto, fino a delineare un «sogno italiano» impastato di arcaismi e futuro. E’ una dimensione collegata alla (presunta) piacevolezza del vivere, al rallentamento dei ritmi, alla sapienza artigianale, a un orizzonte poetico, a una melodia dell’esistenza. E in definitiva a una contemplazione estetica ed estatica del mondo, laddove il contemplare va inteso alla lettera come il «trarre qualche cosa nel proprio orizzonte», con il templum evidente nell’etimo di uno spazio sacro.
Ripensiamo oggi al successo internazionale di Il postino, film del/dei Sud, ovvero film del cileno Pablo Neruda e del suo esegeta e connazionale Antonio Skàrmeta, ma anche e soprattutto del napoletano Massimo Troisi, più che dello stesso regista scozzese Michael Radford, il quale lo diresse nel 1994 (premio Oscar nel ’96 per le musiche di Luis Bacalov). Girato tra Procida e Salina, Il postino, rovescia la nozione insulare nel suo contrario: soltanto un’isola del Sud consente ai personaggi (un celebre scrittore e un portalettere), nonché agli spettatori, di non essere soli o isolati, quindi di stringere legami di affetto e di amicizia che altrove andrebbero/andranno dissipati.
D’altro canto, il sogno italiano della «dolce vita», per uno dei ricorrenti paradossi della storia, ha assunto contorni evidenti in una temperie segnata dal dolore, ovvero dalla speranza di affrancarsene. E’ storia sia del dopoguerra sia degli ultimi lustri quando il Sud dell’Italia diventa chimerico nello sguardo dell’Altro, che per il filosofo Emmanuel Lévinas è l’unico passaporto sempre valido. Centinaia di migliaia di migranti asiatici e africani hanno «eletto» le spiagge siciliane o pugliesi ad approdo occidentale, a novella terra promessa, a frontiera decisiva. Dalla caduta del Muro di Berlino (1989) in poi, l’esodo è passato dal Mezzogiorno d’Italia. E l’esodo – ricordava la scrittrice americana Susan Sontag – è tout court la storia del XX secolo. In tale orizzonte, sia detto a margine, all’Italia spetterebbe un ruolo geopolitico non marginale in Europa e nel Mediterraneo, fin qui non onorato e spesso neppure coltivato dai nostri governi.
L’Italia e viepiù il Mezzogiorno sono agli antipodi di chi vagheggia uno «schermo buio» globale, ne costituiscono un possibile antidoto. Il Sud è visionario, è innanzitutto luce e conosce la saggezza dell’ombra, della pausa, della preghiera, del rispetto, del pensiero (da Tommaso d’Aquino a Giordano Bruno, fino a Giambattista Vico e Benedetto Croce). Soprattutto, il Sud è alieno dal teorema del «dimostrare», cui preferisce di gran lunga il «mostrare». Perciò sugli schermi lontani l’Italia è il Sud, ovvero spesso coincide con le sue visioni luminose, ardenti, incantate, ma anche dure, laconiche, dignitosamente povere; «mischia di luce e lutto» per dirla con lo scrittore Gesualdo Bufalino.
Tale percezione dell’immaginario collettivo è confermata, appunto, da non pochi fra i premi Oscar andati ai film italiani prima di La grande bellezza, che pure riserva il suo segreto primo e ultimo nell’isola dove il protagonista Toni Servillo, adolescente, scoprì l’amore. Se si esclude lo straordinario corpus artistico di Federico Fellini (cinque statuette, scandite dalle marcette delle bande del Sud che Nino Rota, per vent’anni al Conservatorio di Bari, amava tanto), nel corso del tempo molti dei vincitori italiani degli Academy Awards riservano una pregnanza meridionale o proiettata verso un Sud più largo dei suoi confini. Citiamo Sciuscià (Oscar nel 1947) e Ladri di biciclette (1949) di Vittorio De Sica, Anna Magnani (1955), Divorzio all’italiana di Pietro Germi (1961), Sophia Loren (1961), Ieri, oggi e domani (1964) ancora di De Sica, Nuovo cinema Paradiso (1989) di Giuseppe Tornatore, Mediterraneo (1991) di Gabriele Salvatores. Sono titoli e nomi che danno ragione, nel più ampio contesto meridionale, a un’intuizione di Leonardo Sciascia sui temi siciliani ricorrenti al cinema: «La Sicilia come “mondo offeso”; la Sicilia come teatro della commedia erotica; la Sicilia come luogo di bellezza e verità» (La corda pazza, 1963). Né fanno testo soltanto gli Oscar. Così fu ne L’oro di Napoli con i suoi ingegni di pizzaiole e pazzarielli scandagliati da Giuseppe Marotta e portati sullo schermo da De Sica nel 1954. Così, nella Sicilia dei documentari anni Cinquanta di Vittorio De Seta per la capacità di restituire un mondo di terra e di mare. Così, ancora e senza dubbio, per la sobrietà/sacertà del pasoliniano Vangelo secondo Matteo 1964) che giusto cinquant’anni fa nei Sassi di Matera iscrisse la Passione di Cristo (il film ottenne comunque tre nomination agli Oscar ’67 per scenografia, costumi e colonna sonora).
I campi di grano della Basilicata dominano Io non ho paura (2003) di Gabriele Salvatores: campi immensi, abbacinanti, libertari incorniciano un sofferto passaggio d’età, dall’infanzia a una drammatica adolescenza. Mentre in nome della «bellezza dei luoghi» siciliani contro le speculazioni volute dalla mafia viene ucciso il giovane protagonista de I cento passi di Marco Tullio Giordana (2000), nella cui colonna sonora ricorre la celebre canzone «Volare» di Domenico Modugno. «Nel blu dipinto di blu» vibrano molte altre storie, magari un blu stemperato nel grigio, lungo una linea d’ombra avventurosa e tragica nei capolavori di Gianni Amelio, Il ladro di bambini (1992) e Lamerica (1994). Dal pranzo in Calabria alla bellissima scena del bagno in mare verso la fine del film, Il ladro di bambini è un viaggio in Italia che rovescia il paradigma del Sud «paradiso abitato dai diavoli». Piuttosto, il paesaggio meridionale nel film di Amelio è un teatro con rovine degno del «Dopostoria» di cui scrisse Pier Paolo Pasolini: è un «vuoto» accogliente verso una timida ma concreta nuova fratellanza. L’istanza etica, lontana ormai dalla formidabile inchiesta sociale di un maestro come Francesco Rosi (Le mani sulla città o Salvatore Giuliano), è tuttavia ancora percepibile nella Napoli «porosa» di Mario Martone, Antonio Capuano, e dei più giovani Antonietta De Lillo e Vincenzo Marra. Per i «vesuviani», ciascuno dei quali avrebbe preso strade diverse, la resistenza al Moderno significa rifiuto di omologarsi a un pensiero unico, cui si oppongono l’autenticità partenopea, «tribale» ma disponibile a ibridarsi con altre culture, e un dialetto con la dignità di una lingua (Eduardo De Filippo docet). E non è un caso che ora Martone sia atteso alla prova di Leopardi col prossimo film, Il giovane favoloso. Post-pasoliniani sono i «cinici» Ciprì e Maresco (da tempo non più sodali) o Roberta Torre, per i quali Palermo è un laconico grado zero della Storia, da cui mettersi al riparo ricorrendo a un’ironia beffarda e carognesca, un po’ com’è Bari nei primi e insuperati film di Alessandro Piva, Lacapagira (1999) e Mio cognato (2003).
Mentre la Sardegna appare «barbara» e splendida, asciutta o mitica, nelle opere di Salvatore Mereu e Piero Sanna, alla scoperta di una lingua scolpita nel silenzio, o contro il silenzio, come in Padre padrone del pastore e glottologo Gavino Ledda (1975) e nel film omonimo di Paolo e Vittorio Taviani, Palma d’oro a Cannes 1977. Non meno orgoglioso d’un passato da tradurre nel futuro è il Salento di Edoardo Winspeare, da Pizzicata (1996) a Sangue vivo (2000), da Il miracolo (2003) all’essenziale e prezioso In grazia di Dio (2014). Da ultimo, il regista che «balla coi ragni» ha testimoniato la fine dell’energia espansiva della pizzica o taranta, incanalata in un fenomeno pop e in una «narrazione» politica per edulcorare i conflitti dello stesso Sud da cui sgorgò (in primis il dramma dell’Ilva di Taranto). Segnato da una forte impronta morale è il cinema del pugliese Michele Placido, uno dei nostri rari divi internazionali, impegnato, quando passa dietro la macchina da presa, nell’esplorazione delle zone d’ombra della realtà, da Pummarò (1990) sull’Italia dei migranti clandestini a Del perduto amore (1998), un ritorno a casa nei paesini del Subappenino, dove sul finire degli anni Cinquanta una giovanissima insegnante si spese per i suoi compaesani fino a morirne. Borghi dove L’amore ritorna, per dirla con un titolo del barese Sergio Rubini (2004), anche grazie a una buona dose di anima e di magia. E’ il Sud della «permanenza del tempo» che Carlo Levi, in una pagina di Un volto che ci somiglia attribuiva sessant’anni fa all’Italia contadina, alle sue dimensioni magiche e rituali, alla familiarità con l’arcaico e all’«uso non interrotto delle generazioni». Un rimedio all’alienazione, alla scissione dell’uomo contemporaneo.
Fedele alla memoria ma con lo sguardo al futuro, magari Il Sud è niente (Fabio Mollo, 2013), eppure può essere salvifico. Purché non si adagi nei luoghi comuni. Ricordate Ricomincio da tre? Il film è del 1981 e dopo i successi teatrali e televisivi della Smorfia, segnò l’esordio da regista di Massimo Troisi, giovane protagonista in viaggio da Napoli a Firenze. Il simpatico automobilista depresso Michele Mirabella e altri gli chiedono se sia un emigrante e lui risponde: «Perché, u’ napoletano pò sulamente emigra’, nun pò viaggià?». Ironia amara da non dimenticare, tanto più alla luce di una disoccupazione dei giovani meridionali che oggi è al 61 per cento.
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