Per molti il decreto del “fare” era questione di sopravvivenza ed è stato giusto rispondervi.
Se volessimo, però, la discontinuità che tutti stiamo aspettando, se volessimo evitare la sindrome della “semplificazione” che diventa inesorabilmente unasintoto che decenni di riforme possono solo avvicinare ma mai raggiungere, il Governo dovrebbe chiedere adesso una delega a conseguire definitivamente l’obiettivo di fare dell’Italia un Paese normale. Con un disegno di legge – possibilmente di rango costituzionale – che contenga un solo articolo che, visto che su questo ci sono stati tanti dubbi nel passato, dichiari: “Il rapporto tra Stato e cittadini è su basi eque, efficienti e ragionevoli. Ciò si applica anche ai debiti che lo Stato e i cittadini vantano reciprocamente e, dunque, a sanzioni, indennizzi, agi, interessie meccanismi per la riscossione. Il Governo è delegato a perfezionare la legge quadro che assicuri l’attuazione di questo principio, provvedendoa cancellare qualsiasi disposizione precedente che lo contraddica”.
Va bene il decreto del fare presentato dal Consiglio dei Ministri durante il fine settimana: Enrico Letta sa che queste “riforme a costo zero” valgono di più di grandi investimenti pubblici peraltro impossibili. Ristabilire un principio di legalità minima tra Stato e cittadini è quello che dai tempi di Adamo Smith è considerato prerequisito minimo per poter ospitare – attrarre o trattenere – imprese e produrre lavoro. E del resto era questo principio di equità, uno di quelli fondamentali sulla base dei quali fu costruita sessantacinque anni fa la Costituzione che rese gli italiani cittadini.
Ma i passi sono piccoli; gli articoli del decreto (47 nella versione provvisoria), nonché le leggi che si sono succedute per rendere l’Italia un Paese più semplice, sono troppo numerose; soprattutto, non si fissa un orizzonte temporale oltre il quale l’Italia potrà ritenere il percorso delle riforme finalmente compiuto, in maniera che possa toccare – da quel momento – a imprenditori e cittadini fare il resto.
Va bene proteggere le prime case e le imprese dai debiti con il Fisco, così come fu giusto cominciare il pagamento dei debiti della PA ai propri fornitori, perché continuare a far morire di fisco gli stessi soggetti che dovrebbero produrre e pagare le tasse è una specie di suicidio collettivo;è giusto introdurre gli indennizzi per ogni giorno di ritardo di un’amministrazione nel concludere un procedimento amministrativo, perchiarire che i funzionari pubblici cominciano concretamente a rispondere della qualità del servizio reso; può avere effetti importanti promuovere il domicilio digitale visto che una quota parte elevata della durata dei processi civili è spesa nello stabilire se un atto è stato notificato correttamente.
La questione vera, tuttavia,non è più quella di aggiustare le storture più evidenti e neppure di creare uno Stato“dal volto umano”, perché non è di questioni sentimentali che stiamo parlando. Ma di pretendere che Stato, cittadini e imprese siano tutti ugualmente responsabili. Che tra le componenti principali di una società avanzata come quella italiana, i rapporti siano basati sulla maturità e non sul paternalismo o sulla furbizia. Se un cittadino paga con ritardo deve essere sanzionato e nella stessa maniera deve esserlo lo Stato se succede il contrario. E se lo Stato chiede e ottiene senza negoziarli degli agi per il lavoro necessario a riscuotere, nella stessa identica misura va risarcito il cittadino o l’impresa che è costretta a difendersi da una richiesta nel caso in cui avesse ragione.
Sono principi che un Governo dovrebbe enunciare nei suoi obiettivi finali da raggiungere in tempi certi, piuttosto che perseguire provvedimento per provvedimento, rischiando di dimenticarsi pezzi di regolamentazioni che si sono stratificate nel tempo e di creare ulteriore confusione.
L’Italia continua – ed è questa la nostra vera malattia – ad oscillare tra gli estremi del “troppo Stato” e quelli della totale assenza di regole. Lo confermano i dati essenziali del rapporto con il fisco: siamo ai primissimi posti per evasione, ma anche agli ultimissimi nel mondo – posizione 131 dopo l’Iran e prima dell’Indonesia secondo la classifica della Banca Mondiale – per invasività dell’amministrazione.
Va bene dare e subito respiro ad un’economia che sta soffocando. È, però, indispensabile che qualcuno dica quando questo interminabile processo di normalizzazione sarà concluso. Ciò servirebbe per generare l’aspettativa più importante: che l’Italia sta per ridiventare un Paese nel quale è possibile fidarsi reciprocamente e lavorare, innovare senza avere paura di un’amministrazione pubblica che oscilla tra troppa invasività e totale assenza.
Storceranno il naso i ragionieri della contabilità pubblica, ma la restaurazione di rapporti civili è l’unica motivazione che valga davvero una deroga al patto di stabilità: il “lusso” della legalità che peserebbe nell’immediato sui conti, sarebbe certamente recuperato gli anni successivi in termini di maggiore PIL ed entrate. Ed è forse questo – valutare la regola del tre per cento non più per anno, ma su un periodo di tre esercizi – l’unico cambiamentoche può trovare d’accordo anche la Germania.
Un Paese dove siano ristabiliti rapporti normali e, dunque, di fiducia:un Governo che nasce dal superamento della guerra di trincea tra l’esercito dello Stato etico e quello del “liberi tutti”, proprio su questo traguardo misurerà il proprio successo.
Articolo pubblicato su Il Messaggero ed Il Mattino del 18 Giugno