È sorprendente che sia Stefano Fassina a denunciare che parte dell’evasione fiscale sia “evasione di sopravvivenza”. Ed è altrettanto singolare che sia Matteo Colaninno a riportare il Partito Democratico nell’alveo della “fedeltà fiscale” come valore di civiltà.
Un ex segretario della Sinistra Giovanile diventato Vice Ministro dell’Economia e da molti ritenuto l’ultimo custode dell’ortodossia socialista, che confessa quello che quasi nessuno ha il coraggio di ammettere. Dall’altra l’erede del finanziere che scalò Telecom e Piaggio e che da responsabile del programma economico del PD, rimane fermo sulla trincea di un principio che assume i caratteri di quei doveri etici che prescindono da qualsiasi altra considerazione. Un gioco delle parti che sottolinea quanto sia proprio quella del ruolo dello Stato, la frattura che più pesantemente sta attraversando il Partito Democratico rimescolando i blocchi ideologici che quel Partito doveva tenere insieme. Del resto, è su questa questione che la sinistra ha perso pochissimi mesi fa un’elezione già vinta e che si agita senza sapere dove tirare una coperta corta: da una parte, c’è l’esigenza di non scoprire i ceti che tradizionalmente rappresenta; dall’altra, una società italiana che progressivamente non sta più dentro a quelle rappresentazioni. Ed è la crisi, questo tunnel senza fine nel quale ci siamo persi da tanto tempo, che sta sfaldando quello che era rimasto delle trincee ideologiche.
Non è necessariamente vero come pure sosteneva un altro Ministro dell’Economia, un intellettuale che pure ebbe a livello europeo meriti importanti, che “pagare le tasse è bellissimo”. È – senz’altro – un segnale di civiltà, se esse sono il contributo – ragionevole, condiviso – che ogni componente di una comunità fornisce per la produzione ed erogazione di quei beni che il mercato non potrebbe mai garantire.
Il meccanismo si interrompe, però, quando – come successe a Boston, all’inizio della Rivoluzione più civile della Storia – ricorrono alcune condizioni: quando una quota sufficientemente elevata della popolazione comincia ad essere convinta che le tasse servano a pagare la sopravvivenza di una burocrazia che non fornisce alcun valore. Quando quella burocrazia cresce fino ad ingoiare la metà della ricchezza nazionale. Laddove è la stessa possibilità di adempiere che si affievolisce perché le vacche diventano così magre da non poter essere più munte. O quando le persone, le imprese possono decidere – in maniera del tutto legittima – di trasferirsi in un Paese che tassa di meno e fornisce servizi migliori.
Deve essere, dunque, una considerazione pragmatica quella che è scappata a Fassina: sull’Italia si stanno allineando tutte e quattro le condizioni per essere molto vicini ad un punto di non ritorno. E, anzi, è possibile che l’inizio della fine possa essere suonata non tanto dai mercati e dallo spread, ma dai numeri che il Ministero delle Finanze potrebbe dover registrare tra qualche mese: se, ad esempio, dovessimo alla fine essere costretti ad aumentare di un punto l’IVA e il gettito complessivo dell’imposta sul valore aggiunto dovesse ridursi, ciò significherebbe che abbiamo superato quel livello oltre il quale un qualsiasi aumento delle aliquote, finisce con il diminuire le entrate: semplicemente perché il limone è stato troppo spremuto. Se ciò si verificasse, avremmo perso di colpo la leva fiscale per gestire una crisi che – a quel punto – si avviterebbe fuori controllo.
E allora? Allora è giusto combattere l’evasione e destinarne il ricavato alla riduzione delle tasse: ponendo, tuttavia, i diritti dei cittadini e delle imprese sullo stesso piano di quelli dell’amministrazione e, quindi, affrontando la questione di un riforma globale non solo dell’IMU ma del Fisco. La via maestra deve essere, però, quella della riduzione complessiva delle entrate tributarie attraverso una grande operazione di taglio della spesa pubblica che non può che partire mettendo in discussione l’inviolabilità del posto pubblico che riduce a percentuali irrisorie la percentuale di uscite aggredibili da una revisione qualsiasi.
Meno Stato, meno tasse: in fin dei conti la crisi che viviamo è quella di una politica, di una Sinistra che per concepire una strategia di crescita non solo economica della società che vuole provare a governare, deve abbandonare l’idea di ridistribuire quote di una torta che sta progressivamente sparendo. Se non lo facesse, l’unica, possibile classe dirigente che abbiamo, continuerebbe a limitarsi ad accompagnarci verso esiti che rischiano di travolgere anche i privilegiati.
Articolo pubblicato su Il Mattino del 26 Luglio 2006