Vorrei tentare di dire qualcosa su Gerusalemme per capire come ce ne occupiamo, Che poi vuol dire come non ce ne occupiamo.
Gerusalemme è una città che sembra interessarci per l’immaginario, non per il reale. Se è così, l’immaginario è separato dal reale, quindi è irreale. Allora perché conta? Perché è lacerato. Quel che conta di Gerusalemme è la lacerazione. Contando la lacerazione, il piano del secolo risolve il problema ponendola sotto sovranità israeliana e basta. Ognuno poi ovviamente avrebbe la possibilità di visitarne i luoghi santi a lui più santi e così via.
Questa visione, comune anche a chi vuole dividere Gerusalemme, non coglie l’essenza della città. I luoghi santi sono tutti santi. E continueranno a esserlo solo se ci saranno comunità di fede a renderli vivi: non facendone parte dell’immaginario, ma della realtà. I leader arabi che per abbracciare tutto quello che ritengono “loro” hanno proibito ai loro cittadini di metterci piede da decenni hanno fatto questo? E i leader cristiani che l’hanno ridotta a meta di viaggi dai costi non sempre contenuti?
Ho spesso sentito dire che a Gerusalemme le pietre parlano. Suvvia… se vogliamo dare un senso alle parole, il fastidio che quelle pietre vedono quotidianamente manifestarsi per ogni “altro” le ammutolisce lasciandole vive solo per chi visita o sogna il loro senso immaginario.
Procedendo così Gerusalemme resterà una città lacerata. E i turisti vestiti da pellegrini ne aumenteranno la lacerazione. I turisti vestiti da pellegrini cristiani vanno in visita al muro del pianto? O al duomo della roccia? Visitarli vuol dire vedere come le comunità li rendono vivi. Panetterie, mercati, profumi, tradizioni, scuole, bambini, dolci, innovazioni, tutto questo vissuto a due passi dai loro simboli eterni: questa sarebbe la Gerusalemme da visitare. Dividerla non ha senso, unirla sì, ma unirla nell’amministrazione congiunta delle sue plurime identità.
Che la prima e prioritaria identità sia quella ebraica dovrebbe essere accettato come scontato. Poi c’è quella cristiana, altrettanto enorme per drammaticità e valenza futura. Infine quella islamica, e infine vuol dire in ordine temporale e in ordine di valenza simbolica.
La corsa islamica a santificare Gerusalemme andrebbe però riscoperta come indicatore di una desiderata comunanza. Questo desiderio radice comune che hanno tentato di trasformare in desiderio di soppiantare oggi andrebbe stimolato per rendere vivo il suo significato autentico; non soppiantare, ma affiancare. In termini astratti, quindi molto concreti: dire ad Ismaele, non sei “escluso”.
Ma Gerusalemme è lacerata dagli uomini, determinati a seguitare a lacerarla. Sappiamo immaginare solo un ordine di occupazione dello spazio nemico, quello dei nemici. Non è troppo dire allora che non c’è “peace”, non c’è “plan”, non c’è “century”. C’è la riduzione del problema Gerusalemme a un problema di ordine pubblico. Si può pensare a una Via dolorosa sanitarizzata?
Ma anche l’idea di dividerla ha lo stesso difetto: Gerusalemme ha nel suo nome la radice della duplicità, vuol dire che se viene divisa viene tradita. Ma tenerla unita non vuol dire unicizzarla, ma raddoppiarla, triplicarla. Non voglio qui entrare nella questione politica delle aree esterne alle mura che cingono la città la vecchia. Le soluzioni ci sono, volendo ci sarebbero, a partire dall’idea di sovranità nazionale e di sovranità confederale.
Dentro le mura però un’amministrazione paritaria e congiunta delle tre comunità è l’unica idea che restituisce a Gerusalemme il suo senso di città duplice, che fino ad oggi non abbiamo voluto riconoscere che è “incontro” non “esclusione”. La moschea di Omar perché è due passi dal Santo Sepolcro? Per segnare la conquista o per evitare la distruzione? Piccole idee, nulla di nuovo, ma il senso del perché non sia vero che non ci sarà pace tra le nazioni finché non ci sarà pace tra le religioni, ma che non ci sarà pace tra le religioni e le nazioni finché non vorremo; noi, personalmente.