Sullo Ionio che guarda alla Grecia corrono giornate «alla Angelopoulos»: piovose, ventose, assai fredde, con improvvisi e stupefacenti slarghi luminosi fra i nuvoloni gravidi di uggia. Come accade ai grandi artisti, Theodoros «Theo» Angelopoulos – scomparso dieci anni fa all’età di 77 anni – è riuscito a «imprigionare» e rinominare la realtà, ovvero a trasformarla in un mondo coeso e coerente che rinvia a una poetica. Nel suo caso, la matrice culturale e l’orizzonte immaginifico sono severi e rigorosi, tuttavia struggenti, mai dimentichi della formazione marxista del giovane avvocato e giornalista Angelopoulos costretto all’esilio parigino durante il regime autoritario dei colonnelli greci (1967-1974).
Fin dagli esordi, nel folgorante «thriller» sull’idea di Giustizia ambientato in uno sperduto villaggio dell’Epiro, Ricostruzione di un delitto (1970), e poi nella strepitosa trilogia La recita, I giorni del ’36 e I cacciatori, è la Storia a rivelarsi come la magnifica e terribile ossessione di Angelopoulos. Eppure, paradossalmente, lo storiografo Angelopoulos appartiene alla ristretta schiera dei registi «geografi». La dimensione che gli è propria è geopolitica e geo-sentimentale, capace di ammantare un luogo di un’aura universale e senza tempo. Il Sud, il Mediterraneo, la Grecia di Angelopoulos non sono affatto solari e festosi come nella tradizionale iconografia, bensì cupi, solitari, «metafisici» come in un De Chirico più atrabiliare. Un Paesaggio nella nebbia, oltretutto immalinconito dal decorso del ‘900 sfociato nell’epocale sconfitta del riscatto socialista. Il crollo del Muro di Berlino, per certi versi, è un crepuscolo dell’egemonia e del senso stesso dell’Europa, che è più evidente nel cinema di Angelopoulos, erede consapevole del Tragico e dei luoghi dove tutto era cominciato: in Grecia.
Il naufragio della politica produce, nei suoi film, un disperato appello alla Ragione coltivata quale innocenza perduta, epos straniato grazie alla consuetudine col teatro di Brecht, visione alternativa ai mass media. Sono i temi, per esempio, di Lo sguardo di Ulisse (1995, premiato a Cannes), film destinato a Gian Maria Volonté che però morì dopo pochi ciak e venne sostituito da Harvey Keitel. Sceneggiato con il nostro Tonino Guerra, reduce da Fellini e Antonioni, e dal sodale Petros Markaris, lo scrittore del commissario Charìtos (il Maigret ellenico), Lo sguardo di Ulisse non riserva alcuna Itaca cui fare rientro. È un’esplorazione amara delle frontiere, anche interiori, che riprende e radicalizza la memorabile metafora di Il passo sospeso della cicogna con i suoi bagliori delle guerre balcaniche (1991, protagonisti Marcello Mastroianni e Jeanne Moreau).
Non a caso, Angelopoulos diventa un interlocutore privilegiato ed ammirato di pensatori e studiosi allorché le Grandi Narrazioni ideologiche vanno in archivio. Nella Parigi dov’era di casa, certo, ma anche a Bari, dove venne nel 1996 su invito del «Film Stage» di Pino Guario e fu protagonista di un prezioso dialogo con Franco Cassano, che aveva appena dato alle stampe Il pensiero meridiano (Laterza 1996), Vito Attolini e Irini Stathi (le relazioni sono in “Cinecritica”, n. 6, 1997). Theo tornava volentieri in Puglia, la regione in cui avevano trovato rifugio alcuni dei suoi compagni durante il regime dei colonnelli, e l’ultima volta era venuto a Lecce nel 2007, ospite del Festival del Cinema europeo di Alberto La Monica.
Il suo cinema resta necessario grazie alla predilezione per il tempo reale, che serba le pause e il respiro della vita quotidiana: piani sequenza, movimenti di macchina lentissimi, montaggio quasi nullificato. È uno stile che si contrappone naturaliter all’universo sintetico, virtuale, affannoso, fasullo del cinema hollywoodiano e della fiction televisiva che ha colonizzato le coscienze con la pretesa del reality show. Contro la lingua del potere, Angelopoulos parla la lingua delle cose, del dolore e della lotta, dell’esilio perenne persino da se medesimo.
L’abbiamo incontrato più d’una volta di persona: era elegante, affabile, loquace davanti a un bicchiere di buon whisky, a dispetto di quanto si potesse temere, e amava parlare della luce. Confidava: «Il sole è favoloso, ma falsifica. Solo le nuvole restituiscono profondità e verità alle cose».
Le quattro ore quattro di La recita (O Thiasos, 1975), vista all’Abc di Bari nel Grande Vuoto del lungomare di allora, è una di quelle proiezioni che cambiano la vita, peggiorandola – grazie al cielo. Perché l’inquietudine dell’avventura esistenziale e lo scandalo della Storia di quel capolavoro accompagnano per sempre. Un «dono di Dio», in greco Theodoros.
(L’articolo riprende quello apparso sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 26 gennaio 2012)