C’è una critica rivolte a papa Francesco che va capita. E’ quella di essere ripetitivo. E’ vero: “accoglienza”, “poveri” e “popolo” sono parole che ricorrono quasi incessantemente nel suo magistero.
Per i suoi critici questo è il sintomo di un magistero “povero”, che conosce il discorso delle beatitudini e poco altro. Un papa che parlerebbe al “popolino” con le categorie del “popolino”, che sa di “comunismo” per alcuni o di “furbizia gesuitica” per altri. Quella furbizia che lo porterebbe a “catturare” l’attenzione di tanti sempliciotti con un discorso che poco dice sulla realtà d’oggi, che non conosce i problemi del terzo millennio, e che riduce tutto a un “ descamisado volemose bene”.
Non ritengo che parlare dei critici di Bergoglio sia una necessità. Non lo ritengo perché nel loro discorso percepisco, forse sbagliando, la nostalgia di una “Chiesa maestra” nel senso che sta in cattedra, giudice infallibile ed estranea alla storia. O a volte puntello di un sistema che ormai fa acqua da tutte le parti e che per riprendersi può solo vendere scontro di civiltà e bisogno d’identitarismo, in due parole “etnonazionalismo populista”. Trovo più interessante soffermarmi su come invece il magistero di Jorge Mario Bergoglio ci prospetti il ritorno del pensiero del forte, aggredisca l’effimero della postmodernità, prospetti dunque una soluzione alta alla crisi dei tempi correnti.
Lo fa dicendo “accoglienza”, “poveri” e “popolo”? Anche, certo. Ma inserendo tutto questo in un discorso molto più ampio, che parte dalla nostra “orfananza”.
Per non essere “ambiguo” farò riferimento a un testo importantissimo del 2001, quando l’arcivescovo di Buenos Aires, cardinale Bergoglio, inviò un suo messaggio alle comunità educative argentine. In quel discorso c’è la visione di un uomo che non sa che diventerà pontefice, ma che sa da quali mali siano afflitte le nostre società.
Bergoglio, che aveva da poco messo a nudo i limiti del “villaggio globale” nel quale crediamo di vedere e sapere tutto, ma vedendolo in tv non lo capiamo, perché non sappiamo avvicinarci alla realtà, parte da un tema caro a lui quanto a Paolo VI, le nostre città. E chiede al suo uditorio di fare uno sforzo di immaginazione; immaginare un uomo, uno di quelli che vivono in quei piccoli centri dove non passa una macchina durante tutta la giornata. Ecco invita a immaginare quest’uomo catapultato nella metropoli. Non avrà paura? E quando calerà la sera non si sentirà un uomo perduto, smarrito? Non avrà bisogno di qualcuno che lo avvicini, che gli apra le braccia? Ecco la vicinanza di cui dicevamo… Per capirlo quell’uomo non basta vederlo in tv… Bisogna “avvicinarsi”. E perché? Solo per “altruismo”?
Parte dall’accoglienza dunque, ma non solo per il risanamento della persona che l’amore ospitale sa generare, ma anche per l’importanza dell’esperienza teologale di cui parla Giovanni: se gli apriamo il cuore gli permetteremo di mettere la sua dimora tra noi. Dunque l’accoglienza ci permette ritrovarci finalmente a casa…
Accoglienza nelle scuole, poi, è accoglienza per giovani “orfani”. Non anagraficamente, spiega in questo testo fondamentale, ma socialmente. I figli di chi ha vissuto gli anni Sessanta, Settanta, sono figli del fallimento, originano da genitori che hanno vissuto il sogno di un mondo nuovo che si è bruciato però nella violenza, nel si salvi chi può. E la “cultura degli affari ha finito di disfare quanto era rimasto di quelle braci”. Dunque non c’è “una lectio magistralis”, un richiamo “ex cathedra” alla mia generazione. C’è dolorosa “vicinanza”. E la constatazione che originano di qui i tratti fondanti di questo tempo: la discontinuità, lo sradicamento, la fine delle certezze, basi della nuova “orfanezza”.
Questa “orfanezza” sta nella cesura “temporale” cioè nella mancanza di memoria e tradizione. Il tempo si è come spezzato, non c’è più memoria unificatrice di noi e delle nostra tradizioni e degli ideali che hanno animato i nostri genitori. La seconda metà del Novecento, e le sue crisi profonde, ha intaccato anche la rivoluzione sessuale che l’aveva caratterizzata, consegnandoci la morte dell’amore. Con l’Aids, che ha spezzato l’idea di rivoluzione sessuale, e con il disfacimento di tante coppie, incapaci di realizzare il loro progetto. E’ la discontinuità generazionale che ha generato altre discontinuità, come quella tra istituzioni e aspettative personali. E’ così che va in crisi un “popolo”? Non soltanto.
La discontinuità di cui abbiamo parlato comporta sradicamento. La città locale infatti viene invasa dalla città globale, osserva Bergoglio, quella che si identifica con le grandi catene, i grandi mall, gli ipermercati, cioè i non-luoghi di Marc Augè. L’identità personale e quella collettiva soffrono nella dissoluzione degli spazi, nell’estensione della città di globale che lascia al locale solo dolore, droga, clochard. Ecco che il “popolo”, perdendo i luoghi che gli danno un senso, perdendo appartenenza, non può che perdere identità. E ne soffre anche la trascendenza. Scrive l’arcivescovo Bergoglio: “Quest’apertura alla trascendenza avveniva, nelle cultura tradizionali, mediata da una rappresentazione della realtà piuttosto statica e gerarchica, e ciò si esprimeva in una moltitudine di immagini e simboli presenti nella città (dalla stessa pianta ai luoghi impregnati di senso o anche di sacralità).” Nella modernità, prosegue, si è passati a un guardare avanti, con la storia vissuta come processo di emancipazione mediato dall’azione umana (l’immagine del popolo che scende in piazza). E adesso che quegli spazi che sono stati inneschi vengono svuotati di senso? Ci ritroviamo a navigare tra altre immagini, su internet? “Ne otterremo mai un contributo al progetto di umanizzazione che sia altro da un’interminabile navigazione, uno zapping senza fine, un surfing sulla brillante superficie degli schermi?”
Tutti questo non può non interpellare la religione, che non è morta, ma ha bisogno che le espressioni religiose massive ritrovino il loro correlativo comunitario per non risolversi in meri gesti individuali.
Se queste sono le importanti fotografie bergogliane della discontinuità e dello sradicamento nell’epoca dell’ “orfanezza”, importantissima è la terza istantanea, quella relativa alla fine delle certezze. Tutte le civiltà crescono all’ombra di certezze, ma l’uomo dell’epoca che non ha continuità con le precedenti, sradicato nella sua stessa città, non può che vivere le certezze come un’illusione. “I principi guida delle generazioni che ci hanno preceduti sembrano effimeri: come continuare a sostenere che il risparmio è la base della fortuna, per esempio, se non c’è lavoro e le uniche fortune che oggi possono crescere provengono dalla corruzione, dalla speculazione e dagli affari loschi?”
Il recente discorso di Genova, sugli imprenditori e sul lavoro, trova così una spiegazione non solo “economica”, ma socioculturale, molto ampia e profonda!
Nel testo a cui ci stiamo riferendo, giunto a questo punto, Bergoglio ricorda che Giovanni Paolo II aveva scritto che per il postmoderno “il tempo delle certezze sarebbe irrimediabilmente passato”, definendolo il nuovo nichilismo. Ma le certezze sono indispensabili, ci dice Bergoglio, per non passare dal pensiero forte al pensiero debole. Ma libertà, uguaglianza, fratellanza, non hanno lasciato solo macerie? “Questa situazione ci obbliga a intraprendere in qualche modo la riabilitazione di una razionalità valida, di un pensiero vigoroso che permetta di superare l’irrazionalismo contemporaneo”. E perché? Se l’urgenza è recuperare la tenerezza, gli aspetti affettivi, perché recuperare il razionalismo? Perché il mondo non è in bianco e nero, e non si può passare da un eccesso a un altro, buttando via tutto il benefico che un approccio razionale ha portato. E poi perché l’irrazionalismo postmoderno fingendo di liberarci dalla burocrazia, dalla disciplina, dall’uniforme, ci consegna alla dittatura dell’economia: il sentimento, l’immagine, l’immediato governano solo per il consumatore. “ Senza una razionalità condivisa, dialogica, una ricerca dei mezzi migliori per raggiungere i fini più desiderabili, (per tutti e per ciascuno), resta soltanto la legge del più forte, la legge della giungla.”
Le medicine che Bergoglio indica nel 2001 sono tre: “lo sviluppo dei vincoli umani”, (la cultura del legame) contro lo sradicamento, la coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa contro la discontinuità, lo sforzo di generare alcune certezze basilari nel mare del frammentario.
Nell’epoca in cui i popoli si frantumano e gli etnonazionalisti populisti cercano di rispondere dall’alto con risposte “contro” e non per, chi altro ci indica come governare dal basso questo tempo davvero di svolta?
Parole lungimiranti e profetiche del papa…chi ha orecchi intenda…io persona semplice voglio dire che qs parole si devono concretizzare…sto facendo un percorso di crescita personale attraverso la danza terapia un metodo che ti aiuta a recuperare energie e forze per le sfide dalla vita quotidiana. Certe volte dove trovare aiuto? Occorre che qs discipline entrino anche nelle parrocchie…per farmi capire uso un immagine… grazie alle opere pie che si occupavano do malati e orfani nascono delle istituzioni come gli ospedali, orfanotrofi e ospizi che nel tempo si sono evoluti…bene oggi i malati sono a livello emotivo., Esistenziale e psicologico… Non si tratta solo di pensare ai casi estremi come fa una comunità come san Patrignano, ma prevenire il disagio… secondo me qs nuove terapie possono fare la differenza
non le conosco, ma credo che tu abbia ragione.