E’ sorprendente; mentre il mondo e in particolare gli Stati Uniti, dai suoi familiari ai giornali alle istituzioni, fanno i conti con il reo, noi facciamo i conti con la vittima. E sì, perché da Feltri a Aspesi e molte altre a finire sotto la lente d’ingrandimento sono i comportamenti di Asia Argento, non del produttore che le ha chiesto favori sessuali. Lei, come molte altre, ne ha parlato molto tempo dopo. E proprio questo diviene un elemento d’accusa: “ perché parlare dopo? Perché cedere? Chi l’ha obbligata?” Insomma, più che vittima questi commenti parlano di un concorso, un’accettazione consapevole per tornaconto. Aspesi aggiunge poi un elemento interessante: tutti i produttori fanno così, ma questo fuoco concentrico contro un solo potente la induce a pensare a qualcosa che ricorda un complotto.
Sono le opinioni di molte donne a colpire di più. Ma è l’etica da noi diffusa, l’idea collettiva di chi sia una vittima, a richiedere una riflessione. Chi è “vittima”? E’ questa la domanda importante in questo sistema culturale che trasforma il “caso Weinstein” in “caso Argento”. Infatti è lei, il suo desiderio di emergere, di continuare a lavorare, il suo subire in silenzio, a essere indagato, scandagliato, valutato, giudicato e molto spesso condannato. Lui, il potente che richiede, pretende, rende succube, no; quella è semplicemente l’ennesima conferma di come va il mondo. Che cosa fare davanti a questo? Semplice, dire di no. Essere “eroi”.
C’è dunque una eroicizzazione della vittima, una eroicizzazione che le richiede di essere diversa da noi, di non cedere, come in contesti molto meno drammatici cediamo noi, di non piegarsi, come ci pieghiamo noi, di non subire. Altrimenti anche noi saremmo vittime, che da vent’anni subiscono senza parlare e che a differenza di Asia Argento seguitano a non parlare. Anche noi saremmo vittime di “come va il mondo”, complici per vicende magari meno estreme e dolorose di quella patita da Asia Argento, che a differenza di Asia Argento non hanno detto basta neanche dopo 20 anni. L’impressione è dunque che la vittima debba assolverci, debba farci sentire esenti da sensi di colpa, e soprattutto debba aver avuto un comportamento eroico che nessuno possa chiederci. Nessuno è tenuto a essere “eroe”, ma avere a che fare con una vittima che non ci appare eroica, che ha subito in silenzio come noi ci imbarazza, ci mette in difficoltà, perché allora dovremmo riconoscere che nel nostro piccolo e molto meno grave continuiamo a farlo. E’ questo che ci mette a nudo, ci interroga. La vittima invece non deve interrogarci. La vittima deve essere perfetta, come nessuno di noi è, perché altrimenti le nostre quotidiane compromissioni diventeranno insopportabili. Se la vittima è una persona normale, come noi, che vuole lavorare, come noi, andare avanti, come noi, questo ci toglie il titolo di cantori della vittima, che è diversa da noi, è aggredita per strada, è violentata dal branco. La vittima ci deve presentare insomma un criterio e un sistema di giudizio che non ci interpella, ci fa sentire giudici sicuri della nostra irreprensibilità, ma anche della nostra diversità e del nostro diritto a seguitare a vedere, ma vedere la trave nell’occhio altrui senza soffermarci sulla pagliuzza nel nostro.
E’ l’idea di essere giudici mai giudicabili il nostro problema?