MALA TEMPORA

Marco Vitale

“Il Mondo che nasce” Adriano Olivetti Edizioni di Comunità 2013

Intervento di Marco Vitale alla presentazione del libro “Il mondo che nasce. Adriano Olivetti” Edizioni di Comunità 2013  presso i Frigoriferi Milanesi il 19 giugno 2013

 

Sono molto felice della ripresa delle edizioni di Comunità in collaborazione con la Fondazione Adriano Olivetti, e molto mi rallegro con chi ha preso questa importante iniziativa.

Sono anche molto contento che questo primo volume nella collana Olivettiana, contenga scritti di Adriano, nati prevalentemente in occasioni legate alla vita dell’impresa o, come diceva lui, della fabbrica.

Non voglio assolutamente porre in secondo piano il pensiero e l’opera di Adriano su tanti altri piani, dalla cultura generale alla politica attiva, all’urbanistica. Tutto ciò caratterizza in modo specifico la sua personalità, per tanti versi unica, poliedrica ed irripetibile. Ma mentre questi aspetti sono stati scandagliati e ben documentati, il suo modo di intendere l’impresa, e l’imprenditorialità non hanno ricevuto la stessa attenzione.

Eppure si tratta degli aspetti più attuali del suo pensiero, e che proprio la crisi economia e del management rendono sempre più contemporanei. Credo che sia stato un errore dei suoi seguaci ed eredi di avere un po’ trascurato questo aspetto, concentrando l’attenzione su altri, pur importanti, aspetti. Eppure, come questi scritti dimostrano, tutto nasce da lì, dall’Adriano imprenditore, anche se non tutto finisce lì. Anche l’idea di Comunità nasce dalla riflessione sul lavoro in fabbrica, come è bene illustrato nello scritto: “Prime esperienze in una fabbrica” (1948): “Non c’era che una soluzione: rendere la fabbrica e l’ambiente circostante solidali. Nasceva allora l’idea di una Comunità”.  E come è ulteriormente sviluppato nello scritto: Dalla fabbrica alla Comunità” (1953). Certo la concezione della fabbrica di Adriano non è quella di un luogo dove si pensa solo, attraverso un conflitto continuo, a sfruttare l’uomo, nell’ambito della “tragica marcia per l’efficienza e il profitto” ma di un luogo dove il lavoro gode di una grande dignità e rispetto e dove, nell’ambito di regole severe ma umane, si lavora insieme per lo sviluppo comune. Quella di Adriano è la concezione dell’impresa e del lavoro sottostante anche alla Costituzione repubblicana. Ed essa proviene dalla sua alta concezione della vita e della storia dell’uomo, dalle sue radici culturali, civili e religiose. Come aveva già capito l’imprenditore Benedetto Cotruglio nel 1458 (Il libro dell’arte della mercatura): “il buon cittadino non nasce dalla mercatura; è piuttosto il buon mercante che nasce dal buon cittadino.

E’ proprio questa concezione alta dell’impresa, del lavoro, della responsabilità imprenditoriale e manageriale, che fa di Adriano non solo un imprenditore di grande successo, ma un imprenditore che entra, di pieno diritto, nella storia del pensiero del management e che è, per questo, sempre contemporaneo. E’ la stessa concezione che lo rese estraneo, ostile, (“sovversivo”, come fu allora definito), alla barbarica classe imprenditoriale italiana del tempo.

E qui si radica il secondo errore dei suoi seguaci ed eredi. Di averne fatto una sorta di totem sacro. Con ciò lo hanno isolato da tutti, anche da Camillo Olivetti, mentre questi scritti dimostrano quanto radicato fosse il pensiero di Adriano nei valori fondanti di Camillo, anche se proiettato a raccogliere le sfide innovative che poneva la grande impresa. Ma lo si isola anche da Roberto Olivetti che tentò, generosamente, di portare avanti la sfida dell’elettronica, con una continuità di pensiero e di valori, al di là dei pur documentati contrasti e incomprensioni. Basti pensare che solo nel 2003, diciotto anni dopo la sua prematura morte, la figlia è riuscita a pubblicare un libro testimonianza su Roberto.

Ho già detto che la personalità di Adriano ed il suo grande spessore culturale è irripetibile. Ma sul piano del pensiero imprenditoriale e manageriale è un grande errore concettuale isolare e sacralizzare la sua figura. Il suo pensiero e la sua opera, ripeto sul piano imprenditoriale, non è per niente isolata, ma si inserisce in antichi e moderni fertili filoni di pensiero, basati sulla concezione dell’impresa e del lavoro come fattore di sviluppo economico e civile. La domanda che Adriano pone nel bellissimo discorso di Pozzuoli (1955):“Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è, al di là del ritmo apparente qualche cosa di più affascinante una destinazione, una  vocazione anche nella vita della fabbrica?”,  non è una domanda destinata a restare senza risposta. Anzi le risposte sono molteplici. Su questo tema molto si sono interrogati gli imprenditori (allora si chiamavano: mercanti) italiani del 1300 e 1400, i veri fondatori del capitalismo moderno, ed i loro cantori, come Coluccio Salutati (1313-1406): “Cosa santa è la giustizia, più santa santissima è la mercatura, senza la quale il mondo non può vivere,  che della sua Firenze diceva, con orgoglio, “Nos popularis civitatis, soli dedita mercatura”. Ma tra questi, ai fini più specifici del nostro discorso, trovo di particolare interesse la definizione che il già citato Cotruglio, grande imprenditore raguseo, da della funzione dell’impresa: “ mercatura è arte  legiptima, giustamente ordinata, per conservazione dell’umana generazione, con isperanza niente di meno di guadagno”. Qui c’è chiarissimo il concetto della legittimazione dell’impresa e del profitto per la sua utilità sociale, per il contributo allo sviluppo (“per conservazione de l’humana generazione”). Ma se vogliamo arrivare ai tempi nostri, tutta l’opera di Drucker (che giudico il più importante studioso di management degli ultimi 60 anni) è una risposta alla domanda di Adriano: “Le imprese sono organi della società. Non sono fine a se stesse. Ma esistono per svolgere una determinata funzione sociale… esse sono strumenti per assolvere fini che le  trascendono. Sono organi di sviluppo”. E un’altra risposta alla domanda di Adriano possiamo trovare in Schumpeter, l’economista che più di ogni altro ha capito il ruolo dell’impresa nel processo di sviluppo: chiamiamo impresa il luogo dove si producono innovazioni; chiamiamo imprenditori i soggetti che realizzano innovazioni.

Una risposta alla domanda di Adriano possiamo trovare anche nel grande filone dei creatori di pensiero d’impresa e di imprese del ‘900 lombardo e milanese: da Carlo Cattaneo a Mylius, Brioschi, Giuseppe  Colombo, Ferdinando Bocconi. E’ un grande filone di pensiero e di opere che, attraverso Romagnosi, si ricollega direttamente all’illuminismo lombardo, pensiero nel quale la crescita economica e lo sviluppo si fondevano direttamente nel grande concetto di “incivilimento”. La crescita economica è buona cosa se si traduce in un processo di incivilimento. Non c’è qui una quasi perfetta identità con il pensiero di Adriano che dalla fabbrica portava alla Comunità e che vedeva il lavoro come processo di crescita personale? Si veda il discorso “Alle Spille d’Oro” 1954 (“La Spilla d’Oro sa che il lavoro che egli ha dato per anni alla fabbrica è qualcosa di intimamente e profondamente suo, per cui a poco a poco questo suo lavoro è diventato parte della sua anima. Perciò in esso splende una luce interiore, perché essa appartiene allo spirito. Il lavoro è perciò spirituale e il lavoratore si sente anch’egli nel lavoro e sul lavoro vicino a Dio, come suo collaboratore e servitore”.

Questa concezione alta del lavoro, che è poi anche la radice vera dell’articolo primo della nostra Costituzione, io la ritrovo in tanti scritti e documenti, antichi e moderni. Ad esempio la ritrovo in una tavola di legno, affissa ad una baita dell’Alta Valfurva, accanto a un umile crocefisso, sulla quale sono scolpite queste parole:  “Gesù, Salvatore nostro, sii la guida del nostro cammino, benedici i nostri lavori, confortaci nelle afflizioni, fa che abbiamo ad avere l’eterno guiderdone nel cielo e nel cuore dei leggitori, fa che fruttifichi la salute di eterna vita”. I vicini di Plagera di Mezzo posero in segno della sua divozione. Bertolina Angelo fece l’anno 1901”. In questa umile scritta, che Bertolina Angelo fece nell’anno 1901, io trovo tante cose, forse tutte le cose di cui abbiamo bisogno per ritornare a essere un paese civile. Il senso della solidarietà (i vicini posero). Il senso del ruolo centrale del lavoro. Il senso che il lavoro dell’uomo non è un vano agitarsi  o un semplice stato di necessità, ma un cammino, cioè l’andare verso una meta. Il senso del mistero che accompagna il cammino dell’uomo, che cerca conforto nello spirito religioso, ma che al contempo vuole il suo giusto premio da coloro che reggono le istituzioni. Non è stupenda questa dignitosa richiesta che il lavoro dell’uomo trovi rispetto nel cuore dei leggitori?

La ritrovo nell’Economico di Senofonte, il primo libro di management della cultura occidentale. Ma forse il testo che più mi ha colpito, è un antico testo egiziano (1150 circa a.C.) che lessi in una mostra al museo egizio di Berlino tanti anni fa. Si tratta di un testo di esercizi per futuri funzionari statali ed il suo obiettivo è chiaramente quello di educare i funzionari (potere) al rispetto del lavoro del contadino (produttore):

La giornata di lavoro del contadino

 

Ed ora vieni, che io ti mostri cosa ne è

del contadino, di questo così duro lavoro.

Quando l’acqua sale per l’annuale

inondazione del Nilo, egli viene tutto bagnato.

Se ne sta là ritto con i suoi attrezzi, tutto il giorno

affila come si deve gli arnesi per arare, la notte

arrotola corde. Persino l’ora del mezzogiorno

la trascorre lavorando e fa i suoi

preparativi, per andare nel campo.

Quando il campo si stende asciutto davanti a lui, egli se ne va,

per andare a prendere un tiro di buoi.

Per molti giorni va dietro il mandriano…

Viene al suo campo e trascorre un periodo

di otto ore e ara, mentre il verme

 lo incalza.

E anche quando ha finito di seminare, passerà molto tempo

prima che veda nascere verdi germogli.

(da un testo di esercizi per futuri funzionari statali, del 1150 circa a.C.)

Come saremmo più civili se anche i nostri funzionari statali fossero educati a rispettare l’impresa e il lavoro del produttore!

 

Infine alla domanda di Adriano potrebbero rispondere, in modo adeguato, anche gli importanti pensatori del filone di pensiero dell’economia sociale di mercato, ed in primo luogo, Röpke.

Dunque sono molteplici e di molte epoche e culture gli affluenti che confluiscono nel grande filone di pensiero che vede l’impresa e il lavoro come fattore di sviluppo e incivilimento, il grande filone nel quale va collocato il pensiero e l’opera di Adriano Olivetti.

E’ però vero che  questo grande filone di pensiero, pur con radici così forti e profonde, è stato battuto, alla grande, negli ultimi 30-40 anni, quelli della finanziarizzazione dell’economia che, come una poderosa erba gramigna, ha soffocato ogni buona messe, quella di quel capitalismo di rapina che Adriano, come del resto ed ancor più Camillo, temeva e respingeva.

Ma forse la sconfitta non è definitiva. Negli ultimi tempi, grazie alla gravissima e prolungata crisi alla quale ci ha portato il capitalismo finanziario e di rapina, il filone di pensiero che ho cercato di schizzare, quello dell’impresa umanistica e sociale (ma non paternalistica! come sottolineava Adriano), quello dello sviluppo come incivilimento, (nel quale va inquadrato il filone olivettiano rappresentato da Camillo, Adriano, Roberto Olivetti e dai tanti dirigenti che, con i loro insegnamenti, sono andati a fecondare il mondo dell’impresa) sta riprendendo voce.

La battaglia è durissima perché  i grandi centri di potere e di pensiero sono ancora tutti in mano al capitalismo finanziario e di rapina, ma, almeno, siamo ritornati a batterci. E questo spinge anche i tanti segnali di rinnovata attenzione ad Adriano Olivetti, ai suoi valori, alla sua concezione d’impresa, alla sua opera. Ma dobbiamo stare attenti a non indulgere alla nostalgia e ricercare, nel passato, soluzioni a sfide nuove. Dal passato prendiamo i valori, gli insegnamenti, gli esempi, le esperienze che ancora valgono, ma le soluzioni le dobbiamo trovare noi attraverso il coraggio, l’innovazione, e lo spirito di verità “la parrēsia” dei greci).

E qui, ancora, ci aiuta Adriano, quando ammonisce: “I tempi corrono, le cose si muovono, non possiamo fermarci a rimescolare le formule e le istituzioni del passato se non per quella parte di bene che in esse è contenuta e per cui ancora valgono… La luce della verità soleva dirmi mio padre, risplende soltanto negli atti, non nelle parole”.

Ripartiamo da qui, da queste memorie, con la nostalgia certamente, ma anche e soprattutto con speranza, guardando avanti per cercare di insegnare ai giovani a impegnarsi per costruire un futuro economico e imprenditoriale più vicino alla concezione d’impresa di Adriano Olivetti che a quella dei signori Riva dell’Ilva.

Marco Vitale

www.marcovitale.it

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