Con il suo comprovato gusto per la caciara, la superficialità che lo distingue, l’impulso a fare sensazione ed épater les bourgeois, Massimo Giletti si è addetto ad ogni puntata della sua concione televisiva a tornare sulla Sicilia e sui suoi mali: con l’intento manifesto e indefesso di screditare, di vederci il marcio ovunque e di additare l’intera regione al disprezzo nazionale. Lo fa invitando più volte le figure più improbabili e inattendibili come Saro Crocetta e Cateno De Luca,sollevando casi inesistenti come quello delle sorelle Napoli di San Giuseppe Iato, vellicando la compiacente corrività di esponenti del governo regionale come Edy Bandiera, dipingendo la Sicilia come una Geena. E lo fa con una strategia che ritiene astuta ma che in fondo è sempre la solita di chi vuole colpire senza essere colpito: salvando i siciliani, decantando le meraviglie dell’isola, scagionando la popolazione tutta per accusare la sola cricca che diventa casta, come se la Sicilia fosse nelle mani di una dinastia monarchica avversa a una regione i cui rappresentanti sono eletti da quanti per primi dovrebbero semmai essere imputati.
Se la verità occorre dirla tutta, sempreché abbia un fondamento la lunga requisitoria che Giletti intenta ogni domenica, non sono né i politici né i burocrati di palazzo d’Orleans e Palazzo dei Normanni i veri responsabili del male cronico che strozza l’isola, ma i siciliani stessi ai quali va ricondotto quello “spirito di mafiosità”, come lo chiamava Michele Pantaleone, che sta alla base di ogni comportamento individuale. Sarebbero i siciliani a volere lo stato di cose che è oggetto di un processo a capo del quale Giletti si è posto come primo giudice. E gli basterebbe vedere quel film di Ficarra e Picone, “L’ora legale”, per dedurre ragioni da tale teorema: la Sicilia che chiede il cambiamento è quella stessa che non lo vuole perché trova nello stato di collusione generale vantaggi personali che nessuna innovazione, nessun rispetto delle regole, potrebbe assicurarle.
Si tratta di una questione vecchia e mai risolta, che anziché provare a chiarire Giletti preferisce rendere più complicata e oscura. Secondo la sua prospettiva, i siciliani sono brava gente vessata e inconsapevole che andrebbe liberata come il santo sepolcro dai templari della sua specie, in guerra contro la banda che si è presa il villaggio o meglio contro la cosca che ha imposto la sua legge. Non capisce il piacione presentatore che non rende alcun servizio ai siciliani né al Paese a mostrare la faccia del diavolo nascondendo l’inferno, quello che Giorgio Bocca vedeva nella Sicilia senza fare alcuna differenza tra reggitori e sottomessi. Né dà alcuna rappresentazione realistica della Sicilia invitando in studio uno dei massimi colpevoli dello sfascio della Sicilia, Saro Crocetta, e un deputato che deve la sua notorietà alle tante inchieste giudiziarie che continuano ad impegnare i suoi avvocati e ai tanti numeri da guitto cui ha dato platealmente seguito nella sua basculante carriera politica.
Mostrare numeri da scandalo, fare facce di indignazione sui raffronti con le altre regioni, ripetere la solita retorica della Sicilia sprecona, sconcertarsi e montare un aeropago perché a San Giuseppe Iato la mafia fa la mafia e trascinare tutto intero il paese in piazza sotto la gogna dell’ipocrisia non avendo fatto niente per le sorelle in isolamento, adducendo di esserne all’oscuro, non aiuta la Sicilia e serve solo a reiterare una geremiade abusata e fin troppo replicata.
Giletti non fa che ripetere che la televisione è questo servizio che deve svolgere, il suo, risolvere cioè problemi come quello che lui ha artatamente ingigantito, ma il rischio è di finire nella logica perversa per cui si possa credere che un problema vada risolto con il mezzo che lo ha creato. E’ infatti il mezzo sbagliato. Il grande male della Sicilia non si può curare in televisione gridando allo scandalo e cercando capri espiatori con l’alzare la voce: l’effetto è sempre contrario a quello voluto. Il De Luca che cerca concitatamente di spiegare i motivi dell’eccesso di consulenze e portaborse all’Ars ottiene di avere solo detrattori, a cominciare dallo stesso Giletti lesto a zittirlo se dice qualcosa di sensato, perché in televisione dibattiti del genere si tramutano in giudizi nei quali si vota pro o contro e si tifa per chi possa avere la meglio. Se poi c’è uno come Giletti, la cui vera abilità è di attizzare il fuoco facendo mostra di volerlo invece spegnere, il risultato è di fare becero populismo nel tentativo di suscitare le reazioni più immediate e facili, mentre il tema della mafia in Sicilia come quello del disordine amministrativo richiedono ben altri strumenti, sedi e artefici, perché non si tratta di fenomeni contingenti per i quali basta portare in studio giornalisti e politici, con l’aggiunta magari di un sacerdote per tirare qualche mistico sospiro, ma di questioni strutturali, storiche alle quali è richiesto l’intervento di storici, letterati, studiosi e ricercatori. Che però in televisione, non alzando la voce, facendo culturalmente la differenza con gente come Giletti, discutendo tecnicamente i problemi, non fanno audience. Ma la questione è e rimane culturale prima di essere politica.
Ma a Giletti tutto questo non interessa. Costruisce le sue trasmissioni come trame di un film che va incontro a colpi di scena, rivelazioni improvvise e tiene alta la suspence. Sa di rivolgersi a un pubblico che non vuole sentire parole difficili e teorie filosofiche, un pubblico che parla come lui, senza proprietà di linguaggio e le frasi a metà, ma che ama assistere più a uno scontro pur verbale che a un dibattito argomentato. Ha trovato che la Sicilia si presta benissimo a fare da toro nella sua corrida o arena che sia e persegue imperterrito e soddisfatto la realizzazione della sua personale serie Tv. La colpa è piuttosto degli ospiti, i siciliani che accettano l’invito, i Crocetta, i De Luca e tutti gli altri proni in collegamento che, osannando il “dottor Giletti”, non si rendono conto di essere il toro alla mercé di un matador che si prende beffa di loro, li usa, li getta e poi li riprende. A maggior gloria solo sua e a massimo detrimento della Sicilia e dei siciliani.
IL SOTTOSCRITTO