“Non siamo stati capaci di rispondere agli straordinari cambiamenti geopolitici, tecnologici e demografici degli ultimi venticinque anni. L’aggiustamento richiesto e così a lungo rinviato ha una portata storica; ha implicazioni per le modalità di accumulazione del capitale materiale e immateriale, la specializzazione e l’organizzazione produttiva, il sistema di istruzione, le competenze, i percorsi occupazionali, le caratteristiche del modello di welfare e la distribuzione dei redditi, le rendite incompatibili con il nuovo contesto competitivo, il funzionamento dell’amministrazione pubblica”. A questo giusto confiteor il governatore della Banca d’Italia, nella sua severa relazione che parla il linguaggio della verità, chiama la classe dirigente italiana, tutta, dai politici agli imprenditori ai sindacalisti ai banchieri agli intellettuali. Per rispondere a questa sfida è necessario un salto di civiltà. Ma io questo salto di civiltà non lo vedo. Vedo solo qua e la isolate azioni di resistenza e di rifondazione. Ma il grosso non ha nessuna intenzione di cambiare.
Quel Tabellini, già rettore della Bocconi, che ritrovo tra il comitato di esperti testé nominati dal Governo, non è lo stesso Tabellini che chiuse una importante inchiesta del Sole 24 Ore (ora raccolta nel volume Lezioni per il futuro. Le Idee per battere la crisi. Ed. Il Sole 24 Ore luglio 2009) con questa mirabile conclusione: “Come sarà ricordata questa crisi nei libri di storia economica? Come una crisi sistemica e un punto di svolta, oppure come un incidente temporaneo e presto riassorbito, dovuto ad una crescita troppo rapida dell’innovazione finanziaria? Se guardiamo alle cause della crisi, e alle lezioni da trarne, la risposta è senz’altro la seconda”. 110 e lode e bacio accademico.
E l’altro importante, e da me rispettato, economista (il cui nome non cito perché si tratta di un semplice ricordo personale senza supporto scritto) che, in un telegiornale della sera dell’estate 2009 disse: “si tratta di una delle tante crisi del capitalismo. Tra sei mesi non ne parleremo più”, non è lo stesso che oggi ci insegna quando e come uscire dalla crisi?
E i sindacalisti che, invece di fare un salto di civiltà in avanti, come hanno saputo fare i sindacati tedeschi nei primi dieci anni del 2000, rimasticano vecchie formule e vecchi schemi degli anni ’50, quali interessi rappresentano? Non certo quelli dei lavoratori. E quel presidente della Confindustria, imprenditore vero e di razza, creatore di tanti posti di lavoro autentici che, caduto nelle mani della burocrazia e degli intellettuali confindustriali, continua ad implorare la creazione di posti di lavoro dal Governo, non è una cosa tristissima?
E quel Berlusconi, che ha ancora tanto seguito e, forte di tanti nuovi ed inaspettati amici, aspira alla presidenza della Repubblica, non è lo stesso impresario che ha inferto al Paese danni antropologici ed economici, tali che, a mio giudizio, il loro effetto durerà non meno di un secolo (che è quello che è successo in Argentina con Peron)?
Ma quello che è più da temere è il partito degli agevolisti. Si tratta del partito più di massa, composito, trasversale, potente. Comprende sindacalisti, uomini politici, presidenti di Confindustria, cardinali, vescovi e sacerdoti, economisti maggiori e minori, pennivendoli. Sono quelli che affermano sempre e comunque che il Governo non fa abbastanza, che bisogna fare qualche cosa anche se non si sa bene cosa (i “qualchecosisti” li chiamava Nitti). Sono quelli che pensano che i governi possano esorcizzare tutte le conseguenze della più grande e globale crisi economica strutturale degli ultimi settant’anni, con qualche agevolazione, trucco o gioco di prestigio. E’ un partito antico e sempre rinnovato se Luigi Einaudi negli anni ’20 scriveva:
“Come si può pretendere che la crisi sia un incanto, e che a manovrare qualche commutatore cartaceo l’incanto svanisca? Ogni volta che, cadendo qualche edificio, si appurano i fatti, questi ci parlano di amministratori e imprenditori incompetenti, o avventati, o disonesti. Le imprese dirette da gente competente e prudente passano attraverso momenti duri ma resistono. Gran fracasso di rovine, invece, a chi fece in grande a furia di debiti, a chi progettò colossi, dominazioni, controlli e consorzi; a chi per sostenere l’edificio di carta fabbricò altra carta, e vendette carta a mezzo mondo; a chi, invece di frustare l’intelletto per inventare e applicare congegni tecnici nuovi o metodi perfetti di lavorazione e di organizzazione, riscosse plauso e profitti inventando catene di società, propine ad amministratori-comparse, rivalutazioni eleganti di enti patrimoniali. L’incanto c’è stato, e non è ancora rotto; ma è l’incanto degli scemi, dei farabutti e dei superbi. A iniettar carta, sia pure carta internazionale, in un mondo da cui gli scemi, i farabutti e i superbi non siano ancora stati cacciati via se non in parte, non si guarisce, no, la malattia; ma la si alimenta e inciprignisce. Non l’euforia della carta moneta occorre; ma il pentimento, la contrizione e la punizione dei peccatori; l’applicazione inventiva dei sopravvissuti. Fuor del catechismo di santa romana chiesa non c’è salvezza; dalla crisi non si esce se non allontanandosi dal vizio e praticando la virtù”.
Bisogna smetterla di ingannare la gente facendo credere che i governi abbiano la bacchetta magica per scongiurare le conseguenze di crisi gravissime come questa. I governi potevano evitare la generazione di una crisi così grave, che è conseguenza di una visione irresponsabile dello sviluppo, della montatura di un’economia di carta, del gigantismo bancario, della deregolamentazione finanziaria selvaggia (le banche sono rimaste regolamentate, ma il trucco è consistito nel portare fuori dal circuito bancario, in circuiti totalmente non regolamentati, il grosso delle operazioni finanziarie e di credito), delle conseguenti manipolazioni finanziarie. Si poteva evitare e governare tutto ciò. Ma ora che, con la loro acquiescenza, la frittata è fatta, i governi possono solo attenuare gli effetti della crisi e cercare di compensarla impostando nuovi temi di sviluppo, ma non certo cancellarne le sue dure conseguenze. Queste dureranno anni e anni e verranno prolungate dai governi se questi si divertiranno a fare i giocolieri.
Marco Vitale