Domani, venerdì 27 ottobre, la Chiesa cattolica promuove una giornata di digiuno per la pace in Medio Oriente. La Chiesa non può rinunciare a quella che per essa è la Terra Santa, ma arriva a questo appuntamento forte di sconfitte che ne hanno quasi cancellata la presenza regionale. Così parlare di pace imporrebbe una riflessione su come questa voce si sia ridotta a marginale e apparentemente declamatoria.
La migliore sintesi di questo percorso la offre il Libano. È il Paese dove la presenza cristiana non è solo numerica (un reale 30 per cento della popolazione) ma anche istituzionale. Il Libano è una Repubblica presidenziale e il presidente è per regola non scritta ma indiscussa un cristiano maronita, come i capi dell’esercito e della banca centrale. Ma i cristiani, dividendosi tra amici e nemici di Hezbollah, hanno confermato che il Libano oggi lo determina Hezbollah. Il presidente cristiano rimasto in carica per gli ultimi sei anni, fino allo scorso ottobre, alleandosi con Hezbollah e riconoscendo il suo diritto a essere la sola milizia in armi nel Paese ha riconosciuto che il Libano non ha diritto a una sua politica di difesa, cedendola alla milizia filo-iraniana. Il risultato è che i cristiani, divisi, non sanno indicare un candidato alla presidenza, vacante da un anno. Questa spaccatura non è ricomponibile, riguardando la stessa sovranità nazionale.
L’impostazione dei filo-Hezbollah ha portato la larga maggioranza dei cristiani siriani a schierarsi dalla parte di Assad durante la lunga guerra siriana. Temendo la maggioranza sunnita, che se avesse conquistato il potere avrebbe a loro avviso discriminato i cristiani, hanno accettato un patto con i filo-iraniani (Assad e Hezbollah) sperando di esserne protetti. In questo modo hanno consegnato la rivolta popolare e all’inizio non violenta alla repressione feroce da parte del regime e poi alle fauci delle milizie islamiste. Queste ultime sono state sconfitte, ma i cristiani non tornano in Siria, perché sanno che è un Paese invivibile. Prima della guerra i cristiani erano il 10 per cento della popolazione, oggi sono meno del 2 per cento.
In un altro bastione cristiano, l’Egitto, la robusta minoranza copta (ancora un reale 10 per cento della popolazione) ha visto la sua Chiesa fare una scelta simile: affidarsi alla protezione del regime, sebbene qui la popolazione copta fosse in larga parte simpatetica con la protesta di piazza contro Mubarak.
Oggi in Iraq il principale patriarca cattolico, il caldeo Sako, è stato addirittura costretto a fuggire da Baghdad dalle provocazioni del regime filo-iraniano, nel silenzio di tutti gli altri patriarchi.
La pressoché esaurita presenza cristiana in Terra Santa può invertire questa rotta? È molto difficile, sebbene vada detto che il patriarca Pizzaballa ha trovato il modo per ridare credibilità al discorso cristiano. Perché in tutti Paesi l’errore cristiano (almeno della maggioranza delle gerarchie cristiane) è stato così brillantemente riassunto da una intellettuale libanese: “Siete afflitti dalla sindrome dell’albergo. Non considerate questi Paesi casa vostra, ma un albergo, che se è troppo scomodo si cambia con un altro. Invece questi sono i vostri Paesi e il proprio Paese se non va si modifica, si lotta per ammodernarlo, migliorarlo”.
Facile a dirsi, più difficile a farsi. Ma certo lo spettacolo di questi giorni dimostra che i cristiani del Medio Oriente o prendono in mano il loro destino o non avranno futuro.
Questa giornata di digiuno più che lo slogan della “pace” dovrebbe dunque lanciare lo slogan della “cittadinanza”. I cristiani dovrebbero cominciare dicendo che visto che ormai parlano arabo da anni e sono a tutti gli effetti arabi, che rivendicano dunque piena cittadinanza in Paesi che arabi si dicono. Sfidare regimi odiati dai loro popoli non è facile, ma farlo in nome dell’identità “araba” dei cristiani di quel mondo toglierebbe di mezzo almeno la vecchia accusa fondamentalista di essere le quinte colonne dell’Occidente, come in parte è stato per colpe di molta parte delle gerarchie ecclesiastiche.
Per essere credibili dunque a mio avviso dovrebbero cominciare a parlare di “Chiesa degli arabi”. Siri, maroniti, caldei, assiri, melchiti, copti, non devono rinunciare alle loro preziose liturgie, ma potrebbero cercare il modo di parlare insieme, cristiani nello stesso maremoto, non come Chiese etniche che si rapportano a gruppi chiusi in un’appartenenza sostanzialmente tribale. Questa Chiesa degli arabi è stata pensata tanto tempo fa da un grande intellettuale cristiano nel 1977, Jean Corbon. Cosa differenzia oggi il discorso di un maronita a Beirut da quello di un caldeo? Lo sforzo proposto da Corbon chiedeva già allora di far presente a molti occidentali che ci sono arabi cristiani. Oggi è giusto chiedersi: lo sanno?
Annegata nel plurale indistinto delle Chiese d’Oriente, la “Chiesa degli arabi” romperebbe l’isolamento delle comunità locali cristiane e dislocate, emarginate, minacciate, ingessate, per portarle a tornare a essere, insieme, protagoniste della cultura araba. Questo renderebbe questo giorno di digiuno un nuovo enorme passo avanti per gli arabi in quanto tali. È il ruolo che i cristiani hanno avuto nell’Ottocento arabo l’obiettivo che si dovrebbe porre per l’oggi.