Ha tragicamente ragione Alexis Tsipras nel commentare quello che è successo Sabato scorso tra Atene e Bruxelles: è stata una giornata brutta per la Grecia, ma bruttissima per l’Europa. I greci si sono trovati ieri a dover fronteggiare il problema di essere rimasti improvvisamente senza soldi; ma l’Europa sta facendo i conti con la più grande sconfitta politica della sua storia. Una sconfitta talmente grande che può non solo mettere in discussione la sopravvivenza di un progetto nato sessant’anni fa, ma creare i presupposti per un conflitto come quelli per evitare i quali l’Europa stessa fu immaginata dai suoi padri fondatori.
Non è un referendum sulla permanenza della Grecia nell’Euro quello che si terrà domenica prossima e che ci ha fatto scivolare nel precipizio sul cui orlo stavamo danzando da cinque anni. I cittadini greci saranno chiamati a scegliere “solo” se accettare o meno i termini di un accordo proposto da Banca Centrale Europea, Commissione e Fondo Monetario Internazionale e che, però, nella commedia degli equivoci che ci intrappola, potrebbe essere già non più valido vista la decisione delle tre istituzioni di negare l’estensione del piano di salvataggio che ne era la contropartita.
I Greci potrebbero rifiutare le condizioni richieste dalla Troika e fallire il giorno dopo. E, tuttavia, nessuno potrà sbattere fuori dall’Euro i Greci, a meno di voler operare un inedito “colpo di stato” a livello europeo: del resto uno dei problemi dell’Euro è che fu concepito come un matrimonio senza alcuna clausola che preveda e disciplini un eventuale divorzio.
Tale circostanza rende ancora più evidente che il Ministro dell’Economia Padoan ha ragione quando dice che Il rischio di contagio è piccolo. Ma solo perché non si capisce chi è più malato: la Grecia per eccesso di debito pubblico o l’Europa per difetto di qualsiasi capacità residua di rispondere anche ad uno solo dei problemi, sempre più numerosi, che si trova a dover risolvere. La tragedia greca, del resto, dimostra che dopo aver chiesto “riforme” a tutti, è l’Europa ad avere bisogno delle riforme più radicali.
A ricevere una sonora bocciatura è la gestione della crisi greca: non solo negli ultimi cinque mesi di governo di sinistra ad Atene, ma negli ultimi cinque anni. Non può che essere giudicata fallimentare una terapia intensiva che ha prodotto un peggioramento delle condizioni del paziente e una crescita del rapporto tra debito pubblico e PIL dal 130 al 170 per cento. E alla fine di una tragedia cominciata nel 2010 rischiamo di scoprire di aver buttato qualche centinaia di miliardi in una fornace (all’Italia costerà un aumento del debito pubblico di ulteriori tre punti) senza che nessuno ne abbia tratto beneficio. Un risultato di cui i vertici delle istituzioni comunitarie non potranno non dover rispondere insieme ai capi di governo che li hanno affiancati nell’infinito succedersi di “non decisioni”.
Ma più in generale a rilevarsi sbagliata è il metodo stesso attraverso il quale la costruzione dell’Europa è continuata dal crollo di Berlino in poi; quello con il quale fu disegnato il Patto che avrebbe dovuto garantire una stabilità che non c’è più.
Un errore, però, è stato anche contrapporre l’argomento dell’austerità a quello della crescita infilandoci in una di quelle guerre di trincea che impediscono di fare un qualsiasi passo avanti. Così com’è sbagliata, oggi, la pretesa di chi rimanda la soluzione dei problemi alla creazionedi un’Unione politica, senza che nessuno si sia mai davvero preoccupato di crearne le condizioni prendendosi i rischi che il coinvolgimento dei cittadini europei nelle scelte più importanti comporta.
L’Europa che è morta, Sabato scorso, nella riunione dei Ministri dell’Economia, è un’idea di Europa che va avanti per rattoppi. Che viene spinta verso integrazioni ulteriori dalla forza dell’inerzia di una burocrazia che non è pagata per elaborare visioni di quello che può essere il ruolo dell’Europa in un’economia globale.Ad essere morta in questa primo fine settimana dell’Estate del 2015, è l’ipotesi che possa essere sufficiente un metodo di concertazione che finisce con il tenere in ostaggio per un’intera notte i vertici di ventotto Paesi per decidere un “non accordo” su come ripartire quarantamila rifugiati in due anni (meno di quanti sono le persone che nel mondo perdono tutto per colpa della guerra in un solo giorno). Salvo scoprire, il giorno successivo, che un’Europa così chiusa rispetto al resto del mondo, rischia di implodere al proprio interno perché a perdere tutto sonoundici milioni di cittadini greci senza più la possibilità di poter prelevare dal proprio conto corrente. A morire è un’Europa dominata dai ragionieri dei tagli lineari capaci di ragionare solo in termini di due o tre parametri – debito e deficit sul PIL, crescita di quest’ultimo; e che sembra aver smarrito qualsiasi capacità di orientare – attraverso il consenso – gli Stati ad una spesa di maggiore qualità, ad una crescita capace di durare nel tempo.
Da dove ricominciamo allora? La risposta viene paradossalmente dai due Paesi che sono più vicini ad un’uscita clamorosa.
Voteranno, probabilmente, no i greci ad un accordo e ad un metodo che, finora, è sempre partito dall’assunto che l’Europa è questione troppo complicata per poter essere spiegata ai cittadini; ma voteranno, probabilmente, sì – tra un anno – gli inglesi, se l’Unione dovesse ricordarsi che le istituzioni sopravvivono solo se capaci di risolvere i problemi e di non trattare i cittadini come chi tutt’al più ratifica decisioni. Dal Paese che ha inventato l’idea classica di democrazia e da quello che le ha dato sostanza in età moderna viene l’unica idea vera in circolazione: esistono i mercati ed è giusto che seguano la propria logica; ma esistono, anche, i cittadini ed è giusto che siano consultati prima di dare una risposta ai mercati ed essere chiamati a rispondere delle conseguenze.
In questi giorni di crisi la cosa che più preoccupa è la lettura dei libri di Storia. Gli antefatti delle due Guerre che hanno segnato il secolo scorso insegnano che le grandi catastrofi nascono dal succedersi delle decisioni sempre parziali di burocrazie weberiane, incapaci di razionalizzare le discontinuità. Se qualcuno vuole il ritorno al sonno della ragione deve augurarsi semplicemente che siano i tecnocrati a continuare a gestire crisi sempre più ravvicinate,con gli strumenti cognitivi immaginati per tempi di stabilità. Se, invece, volessimo salvare l’Europa, e con essa la possibilità nostra di viaggiare da un Paese ad un altro per crescere, non ci sono scorciatoie: dobbiamo ricominciare da leader che siano capaci di far sentire ad un numero sufficientemente elevato di persone che l’Europa è un patrimonio di tutti e di sfidare sul terreno del consenso chi ci vuole chiudere a difesa di sicurezze che si stanno sgretolando.