Alla logica del dibattito surreale e della comunicazione del nulla appartiene – da sempre e quasi per intero – il movimento della protesta sulla Scuola e l’episodio della Festa dell’Unità di Bologna che ha visto il ministro dell’Istruzione Giannini abbandonare un dibattito perché accusata di “non aver voluto ascoltare” chi l’ha zittita (!), è solo l’ultimo capitolo di una saga che dura dagli anni settanta. Studenti che occupano le scuole – esperienza, per altri versi, formativa–e che però ignorano completamente le ragioni della rinuncia all’erogazione di un proprio diritto in quella giornata; insegnanti che si ricordano di lamentarsi in forma organizzata solo quando il ministro di turno – succede regolarmente a prescindere da quale che ne sia il colore politico – si mette in testa di cambiare l’istituzione di cui essi stessi denunciano la crisi cronica; laddove sembra che tutti – dagli editorialisti agli “occupanti” – siano troppo impegnati a protestare e a commentare le modalità della protesta (e le eventuali reazioni delle forze dell’ordine), per potersi andare a leggere il testo dei provvedimenti contestati e formulare proposte alternative.
È, in effetti, un paradosso quello dei movimenti sulla scuola. Non si capisce perché l’“onda” della contestazione si scongeli – dopo lunghi periodi di letargo – solo quando qualcuno prova a cambiare le cose. Non si capisce perché succede a prescindere dalla diversità, a volte profonda, tra i progetti di riforme, utilizzando sempre le stesse accuse rimaste uguali a se stesse negli anni. È come se – studenti e insegnanti o, perlomeno, la parte più rumorosa di essi – abbiano sviluppato, nel tempo, un atteggiamento difensivo dello status quo. Laddove, invece, ci si aspetterebbe da questo blocco socialeil contrario: che esso si ponga alla guida del cambiamento drastico della scuola e del modello di società che nella scuola trova le radici. Proprio come succedeva per gli antenati dei movimenti, quelli che nelle scuole avviarono negli anni sessanta una rivoluzione culturale, contraddittoria ma ambiziosa.Per il governo la sfida decisiva – almeno quanto quella di attraversare illeso le imboscate parlamentari – è, però, riuscire in un’impresa che nessuno prima mai ha vinto: trasformare l’energia di chi lavora nei luoghi dove si sta costruendo il nostro futuro, nella forza che faccia andare ancora più veloce il cambiamento.
Nello specifico – scavando tra espressioni folkloristiche e pentole – le accuse che vengono mosse al disegno di legge attualmente in discussione alla Camerasono tre (anche se su di esse, i contestatorisi dividono tra di loro formando un arcipelago di posizioni).
Moltiattaccano il Governo sul piano straordinario delle assunzioni dei precari.Costerà 2 miliardi di euro allo Stato assumere in via definitiva centomila persone, delle quali cinquantamila circa andranno a coprire cattedre rimaste vuote da insegnanti andati in pensione negli ultimi tre anni e cinquantamila offriranno ai presidi profili aggiuntivi con i quali costruire curricula diversi per ciascuna scuola. Da sinistra e, soprattutto, da parte dei docenti inseriti in graduatorie alle quali non si applica l’assunzione, si contesta al governo di non aver reclutato tutti; da destra si rimprovera, invece, di voler fare una “sanatoria” che costringe le scuole ad un aumento del personale troppo grande e veloce per poter essere digerito senza contraccolpi organizzativi.
La realtà è che quello dei precari è il nervo scoperto che nessun ministro ha mai toccato, preferendo continuare nello sport nazionale di lasciare in eredità al ministro successivo il tappoche ha bloccato la Scuola italiana in una di quelle situazioni di emergenza permanente (e, persino, di illegalità sanzionata da una procedura d’infrazione attivata dalla Commissione Europea) alle quali spesso riusciamo ad affezionarci. Il cerino è rimasto in mano al ministro Giannini e le va riconosciuto il coraggio di aver fatto la scelta di voler definitivamente risolvere il problema, provando a trasformare il problema in un’opportunità per l’autonomia e mettendomano al portafoglio: dal 2017 non ci saranno più graduatorie ma solo un organico di ruolo, disegnato in maniera tale da essere del 10% superiore alle esigenze minime e che si rinnoverà ogni due anni con un normale concorso. Gli effetti andranno attentamente valutati, istituto per istituto, pronti a correggere gli errori, ma il nodo gordiano di una Scuola che si è precarizzata con i precari andava sciolto e questa è una buona notizia, non solo per centomila insegnanti che recuperano dignità.
Forte sembra, poi, lo scetticismo rispetto all’idea di dare al preside l’autonomia di scegliersi i propri insegnanti tra quelli abilitati: non sono pochi quelli che temono che il potere dei super presidi alimenti le raccomandazioni. Tuttavia, non possiamo continuare a rimandare il cambiamento, inventandociogni volta che questo Paese non se lo può permettere perché malato e bisognoso di una badante (e di un tribunale). L’autonomia non ha senso se chi deve essere autonomo non controlla la leva principale – il personale – attraverso la quale l’autonomia si sostanzia. Il disegno di legge, semmai, rimanda a ulteriori decreti legislativi i due altri aspetti fondamentali attraverso i quali l’autonomia si perfeziona: la valutazione e le modalità attraverso le quali si assegnano i premi. Anche su questo, però, il Governo sembra, stavolta, fare sul serio: il disegno di legge stanzia 35 milioni a partire dal 2016 per premi di produttività per i dirigenti scolastici e 200 milioni che i dirigenti stessi useranno per premiare i propri migliori insegnanti.
Infine, la questione delle risorse. La lamentela sulla “distruzione” della scuola pubblica appare, se si legge la valutazione dello stesso DEFfa sull’impatto delle riforme, un disco rimasto incagliato da qualche decennio. Oltre agli stanziamenti sulle assunzioni e sul merito, la proposta del governo stanzia per la formazione circa 600 euro in più per ogni docente (dei quali 500 sotto forma di voucher che il singolo individuo deciderà come spendere) e ciò porta la spesa complessiva a quasi 3 miliardi di euro all’anno. È vero che sono previste agevolazioni fiscali per le scuole paritarie ma è altrettanto vero che esse sono previste anche per le scuole pubbliche e che, comunque, le paritarie ricevono un beneficio (64 milioni di euro all’anno) che è piccolo rispetto all’investimento che si sta facendo (complessivamente 3 miliardi di euro all’anno) sulla scuola pubblica di cui viene ribadita la centralità.
Non è perfetto il disegno di legge sulla “buona scuola” ed anche questo provvedimento risente di non pochi compromessi e della necessità di ascoltare – per quanto possibile – diversi milioni di persone. In particolar modo, mancano nel provvedimento alcuni passaggi fondamentali (quello sulla valutazione, ad esempio). Ci sono rischi evidenti e gli esiti dipenderanno dai “dettagli” nei quali si annida, regolarmente, il diavolo della conservazione nonché, per definizione, dalla bravura dei dirigenti scolastici. Ma la critica a prescindere è sbagliata e rischia di essere un boomerang per i contestatori e gli stessi sindacati che scegliessero di arroccarsi. La chiave del successo per il Governo è riuscire, invece, laddove tutti sono falliti: trasformare la “maggioranza silenziosa” di chi si augura di poter viverein un Paese normale (e, dunque, straordinario), nell’avanguardia di un cambiamento che sia ancora più ambizioso e continuo di quello che esce dalle riforme proposte dai ministri di un governo costretto a correre per sopravvivere.
Articolo pubblicato su Il Messaggero ed Il Gazzettino del 27 Aprile