PAROLE, PAROLE, PAROLE

Alberto Benzoni

Il bipolarismo italiano tra fantasia e realtà

Una delle manifestazioni più evidenti della crisi della seconda repubblica è l’impossibilità di discuterne in modo intellettualmente decente.

Un esempio illuminante di questo degrado è il dibattito sul bipolarismo; insieme, faticosamente ripetitivo, schematico e assertivo ai limiti della malafede e, infine, vagamente surreale.

Così riemerge dal nulla quando si riparla di legge elettorale: ecco allora i guardiani del maggioritario suonare, in nome e per conto della gente, l’allarme per il possibile “ritorno alle pratiche perverse” della prima repubblica; e, per converso, i proporzionalisti sottolineare, sempre allo stesso titolo, i guasti di un “bipolarismo perverso e barbaro”.

Così, ancora, in particolare i sostenitori del maggioritario, danno per scontata una palese controverità; e cioè che la scelta di quel sistema elettorale garantisca automaticamente la moralità della politica e l’efficienza del sistema; quando dovrebbe essere chiaro a tutti che a livello europeo questi obbiettivi sono stati decentemente raggiunti con i più diversi sistemi elettorali e, in particolare, con il proporzionale.

Infine, ed è quello che particolarmente ci interessa , abbiamo un dibattito surreale perché totalmente nominalistico. Ascoltando i nostri nuovisti si ha, insomma, l’impressione che il bipolarismo, in Italia, nasca con la seconda repubblica; perché merito loro e va bene; ma anche perché prima non c’era e questa è un’evidente controverità.

E basti, al riguardo, considerare il fatto che il termine “bipolarismo” non compare nel dibattito politico-culturale in nessun paese dell’Europa occidentale. E questo perché la Cosa non ha bisogno della Parola per esistere; perché, in parole povere, il bipolarismo appartiene al naturale funzionamento di qualsiasi sistema democratico.

Qui il confronto politico, economico, culturale, sociale ad articolarsi su linee conflittuali e su schieramenti alternativi. Le divisioni sono articolate e molteplici; e suscettibili, perciò di portare all’ingovernabilità del sistema.

A garantirne il regolare funzionamento concorrono però tre fattori fondamentali. L’esistenza di un “discrimine principale”, anche perché percepito come tale dall’immaginario collettivo, intorno al quale si organizza il confronto. E, ancora e soprattutto, il fatto che il confronto stesso sia suscettibile di mediazione.

In questo quadro, l’Italia, in particolare nell’ultimo ventennio rappresenta indubbiamente un’anomalia negativa. Si tratta allora di capire come e perché questa si sia determinata; e i possibili percorsi per superarla.

Azzardiamo, al riguardo, e in estrema sintesi, alcune ipotesi di lavoro.

Cominciamo con il ricordare, ancora una volta, che il bipolarismo italiano non nasce per il concorso di Segni, Occhetto, Di Pietro e C. come progettisti e di Berlusconi come “utilizzatore finale”. Perché, nella fase storica che ci interessa, quella dell’Italia repubblicana, c’era stato da sempre.

Storicamente, allora, il “modello italiano”è, complessivamente, simile, anzi identico a quello occidentale; mentre sono state diverse le modalità della sua costruzione.

Al centro del confronto bipolare, in Italia come altrove, le questioni economico-sociali. Su tali questioni si misurano grandi schieramenti; in una logica che è però di costante mediazione. E che porta quindi a una progressiva riduzione delle disuguaglianze a vantaggio dei “molti”. Più lavoro, più benessere, più giustizia sociale.

In questo, il percorso italiano, nel trentennio successivo alla chiusura della crisi postbellica, è, come si diceva, identico a quello europeo e americano. Diversi sono, invece, i protagonisti della mediazione; e, quindi la tipologia della costruzione.

In Europa, a confrontarsi sono, di regola, moderati e socialdemocratici; in un contesto in cui gli uni e gli altri si alternano al potere; diventando così parti attive e coscienti nella costruzione di un razionale e unitario sistema di welfare.

In Italia, protagonisti della vicenda sono Dc e Pci. In un confronto-scontro che si muove su due piani distinti. Quello, appunto, degli assetti economico-sociali; ma anche quello dei grandi modelli di riferimento: socialismo reale o democrazia liberale.

Eravamo, dunque, in una situazione in cui il “bipolarismo di scontro”rischiava di prevalere su quello di mediazione, con esiti rovinosi per la democrazia. Ed è allora merito imperituro di de Gasperi e Togliatti e della generazione politica successiva di aver prevalere il secondo sul primo. Da una parte- ed è questo l’aspetto più noto- costruendo un sistema fatto di regole di comportamento e di garanzie tali da mantenere il confronto politico su livelli compatibili con lo sviluppo della democrazia. Dall’altra- ed è questo l’aspetto meno studiato ma per noi decisivo- congelando il confronto sui massimi sistemi in modo tale da favorire le mediazioni sul terreno economico-sociale.

Nella nostra ipotesi di lavoro i comunisti utilizzano l’adesione ai principi del leninismo e alla rivoluzione futura come “garanzia ideologica”per svolgere, nel quotidiano, una linea gradualista e socialdemocratica. E che, per converso, i democristiani( da De Gasperi a Fanfani ) ritengono che , per contrapporsi efficacemente ai comunisti sul terreno dei principi, occorre essere concorrenziali con loro nel rispondere alle attese di benessere e di eguaglianza dei “molti”.

Così il “bipolarismo all’italiana”favorisce una espansione senza precedenti del benessere e dei diritti; ma, nel contempo, contiene vizi di esecuzione”che, alla lunga, si riveleranno esiziali.

Parliamo di una gestione del processo affidata ai partiti e alla politica più che allo stato e alle istituzioni; del crescere disorganico del sistema sotto la spinta di pressioni corporative e di effimeri radicalismi; e, infine, della mancata assunzione di paternità della loro creatura da parte dei comunisti.

Questi praticano sì il riformismo a giorni alterni durante la settimana; salvo a denunciarlo come nemico durante le loro funzioni domenicali. Ciò faciliterà nel corso degli anni ottanta, la reinvenzione della loro diversità sotto il segno della “questione morale”; con esiti a tutti noti.

Ora, l’effetto cumulativo di questo insieme d’anomalie darà alla crisi dello stato sociale- comune a tutto l’occidente industrializzato – connotati particolarmente distruttivi.

Fuori d’Italia avremo il riflusso. Ma non il mutamento qualitativo dei parametri e dei protagonisti del confronto bipolare. Da noi, invece, la crisi del vecchio sistema bipolare sarà violenta. E travolgerà tutto e tutti.

In sintesi, “spariranno dai teleschermi” questione sociale, classe e/o movimento operaio, questione meridionale, impresa pubblica ; insomma i principali punti di riferimento del bipolarismo tradizionale. Al loro posto, il confronto, politico ma soprattutto morale, sulla corruzione: da una parte i giudici autoproclamatisi guardiani della virtù; dall’altra un nuovo Personaggio, qualificatosi all’insegna di difensore delle libertà ( in realtà della licenza; all’insegna del “fare i c… vostri e tutto andrà per il meglio” N.d.R.). E, distinto ma collegato con quello, il confronto tra il Nuovo e la Gente da una parte e il ceto politico dall’altra.

Due bipolarismi per definizione permanenti e non mediabili; ne va del ruolo e dell’esistenza stessa dei loro rispettivi protagonisti. Ma anche due modelli di confronto che, protraendosi nel tempo, sono destinati a produrre una febbre permanente tale da paralizzare e decomporre il sistema politico nel suo insieme.

E i segnali della crisi finale sono tutti davanti a noi. Perché, in nome della Virtù chiunque è, oramai, per definizione sospetto. E, nel regno del Nuovo e della Gente, politica, partiti, istituzioni vedono oramai contestata l’utilità della loro esistenza.

E qui occorre soffermarsi sulla situazione del Pd . Un partito che rischia di fare la fine di Filippo d’Orlèans ai tempi della Rivoluzione francese. Una della massime personalità dell’Ancien regime, riconvertitosi come corifeo del nuovo, sotto il nome di Filippo Egalitè, sino al punto di votare per la morte del re; per finire però anche lui sotto la ghigliottina l’anno successivo.

Fuor di metafora, il partito aveva abbracciato i valori del nuovo bipolarismo, illudendosi di poterlo governare politicamente. Ma ha fallito alla bisogna. A partire dall’incapacità di chiudere i conti con Berlusconi e il berlusconismo, in Parlamento o sull’onda dei processi e dei moti d’opinione. E oggi si trova esposto alla contestazione violenta delle forze da lui stesso tante volte evocate.

In questo caso dovrebbe però funzionare l’istinto di conservazione. E, con esso, la consapevolezza che, per sfuggire all’attacco dei due bipolarismi oggi in auge, non vale la pretesa di contrastarli; e nemmeno l’illusione di gestirli. L’unica via d’uscita è allora quella di superarli; insomma di offrire al confronto bipolare nuovi parametri di riferimento.

 

E qui la breve storia del nostro bipolarismo reale può arrivare a una prima, e potenzialmente positiva conclusione. Perché gli elementi di un nuovo bipolarismo sono già oggettivamente presenti nella realtà italiana e, ciò che più conta, possono essere globalmente gestiti dalla sinistra.

Parliamo, insieme, del vincolo europeo e della questione sociale.

Attenzione: i due paradigmi sono, allo stato, tra loro contraddittori; è l’intervento dell’Europa ad aver determinato il crollo del modello berlusconiano, ponendo al paese, nel contempo, l’urgenza delle riforme; ma è questo stesso intervento ad essere percepito, e non a torto, come fattore di aggravamento della crisi economico-sociale.

Come superare questa contraddizione ?

Qui l’onere è (quasi) tutto sulle spalle della sinistra di governo. Questa può assumere sino in fondo le ragioni dello scontro; schierandosi con Monti oppure con Fassina. Una via impercorribile; perché condannerebbe comunque il Pd all’irrilevanza; e, ciò che è più grave determinerebbe un’aggravarsi delle tensioni, insopportabile dal nostro sistema democratico.

Può, anche, ignorarne la portata, tentando mediazioni puramente verbali. Siamo al “ma anche di imperitura memoria: “adottare le direttive comunitarie ma entro limiti compatibili con”; oppure “vogliamo le cose di Monti ma ne vogliamo anche altre”. Ma qui il veltronismo non aiuta.

Può, infine, tentare una sintesi. Così da determinare, alla fine del processo, il ritorno ad un bipolarismo di mediazione: da una parte una formazione internazionalista ma al tempo stesso, intenta alla ricostruzione di un nuovo modello di welfare nazionale; dall’altra uno schieramento anch’esso internazionalista, ma di ispirazione più fortemente liberista. E, a pungolare l’una e l’altro; la pressione populista, tutto sommato utile se assunta a piccole dosi…

Come realizzare questa sintesi? I “consigli e gli auspici”rivolti alla sinistra e al suo partito di riferimento, per lo più inascoltati, riempiono intere biblioteche. Meglio, allora, fermarsi qui.

 

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