MEDIO ORIENTE IN FIAMME

Umberto De Giovannangeli

Idlib, l’insostenibile leggerezza del patto Putin-Erdogan

La tregua è solo una parentesi. Perché è ormai chiaro che gli interessi strategici dei due contraenti sono inconciliabili. Forse le armi taceranno per qualche giorno a Idli, forse, ma di sicuro il Sultano di Ankara non smetterà il suo progetto di realizzare un protettorato turco nel Nord Ovest della Siria. Recep Tayyp Erdogan lo ha iniziato a edificare ad Afrin, e poi nel Rojava, invadendo con le sue armate un territorio controllato dalle milizie curde siriane dell’Ypg. . Lo ha fatto con il via libera di Trump, con la silente complicità dell’Europa, e con un mezzo via libera da parte russa. Lo ha fatto avviando la pulizia etnica ai danni dei curdi siriani e non sarà certo una tregua rabberciata ieri a Mosca dopo sei ore di trattative con il “grande sponsor” del regime di Damasco,

Il Sultano ha pensato per il nord della Siria un piano di pulizia etnica: sostituire i curdi che vivono quelle fasce di territorio e che per la Turchia sono nemici esistenziali. E sostituirli usando i profughi siriani che si trovano da tempo nei campi di confine. Tre milioni e mezzo persone che stanno diventando un peso, sia economico che politico, potrebbero invece diventare la carta vincente definitiva contro i nemici curdi. Erdogan progetta da anni di rovesciare all’interno della Siria i suoi profughi. Intende creare una fascia simile a un protettorato che dovrebbe andare dal cantone di Afrin (già turco) fino al nord di Aleppo e più a est verso Jarablus. Ne ha mostrato i piani anche all’ultima Assemblea delle Nazioni Unite. E tutto è diventato più concretizzabile da quando gli Stati Uniti hanno abbandonato la tutela dei curdi lungo l’aerea di confine tra Siria e Turchia. Erdogan ha già  annunciato la creazione di nuove città e villaggi dove reinsediare un milione di rifugiati siriani arabo-sunniti per trasformare i curdi in una minoranza lungo la frontiera. La politica di arabizzazione dei territori curdi e annessione strisciante alla Turchia marcia già a pieno regime nel Nord-Ovest della Siria, dove apriranno tre facoltà dell’università di Gaziantep e da dove i curdi vengono espulsi. Nei fatti, quella che si sta configurando è la creazione di un protettorato “ottomano” nel Nord della Siria, che minerebbe l’unità territoriale dello Stato siriano, o di ciò che ne resta dopo nove anni di una devastante guerra per procura.

Per Bashar al-Assad  riprendere Idlib significa di fatto chiudere la guerra civile e conquistare la strategica arteria stradale M5. Strategica perché la M5 collega le due città più importanti della Siria: Damasco, la capitale amministrativa, e Aleppo, definita la capitale economica del paese. Mentre Damasco è sempre rimasta sotto il controllo di Assad, Aleppo fu in parte conquistata dai ribelli nel 2012, che poi la persero nel dicembre 2016 dopo una battaglia molto lunga e cruenta, vinta da Assad solo grazie all’aiuto di Hezbollah libanese, delle milizie iraniane e delle milizie sciite irachene, oltre che dei bombardamenti russi. La M5 passa inoltre in mezzo ad altre importanti città siriane, come Hama e Homs, e all’altezza della città di Sareqeb si collega all’autostrada M4, quella che porta fino a Latakia, roccaforte di Assad sulla costa, nella Siria occidentale.

Secondo alcune stime citate da Associated Press, prima della guerra da questa autostrada passavano beni e merci per 25 milioni di dollari al giorno. Tra le altre cose, la M5 era il passaggio usato per trasportare il grano e il cotone dall’est e dal nord della Siria al resto del Paese; era anche la via attraverso la quale avveniva buona parte degli scambi commerciali con la Giordania, l’Arabia Saudita e altri stati arabi, oltre che la Turchia. Taleb Imbrahim, analista siriano, ha definito la M5 “la più fondamentale e strategica autostrada di tutto il Medio Oriente”.

Quanto alla Russia, il suo obiettivo è ripulire del tutto il territorio, insieme all’Iran. Ankara invece ha fatto leva sulla costituzione Fronte di Liberazione Nazionale, una sorta di esercito irregolare, con il sostegno delle milizie jihadiste lì arroccate. Per assumere il controllo de facto del nord della Siria. Controllare Idlib significa tutto questo: chi vince dà le carte in Medio Oriente

Il risultato dei colloqui- fiume sono condizioni molto simili a quelle dell’accordo di Sochi del 2018, violate in questi giorni. Anzi, sono praticamente uguali. Una zona- cuscinetto pattugliata dall’esercito turco e quello siriano, sei chilometri a nord e sei chilometri a sud dall’autostrada M-4, che collega Aleppo a Latakia e che rimane saldamente nelle mani di Assad. Le condizioni in cui si opererà in questo corridoio di sicurezza non sono ancora state definite, perché i ministri della Difesa ci lavoreranno nei prossimi sette giorni. Un successo, per quanto sudato, per Vladimir Putin, che durante la conferenza, ha commentato: “Non siamo sempre d’accordo su tutto, ma quando la situazione lo richiede, troviamo un’intesa”. Il leader russo ha anche detto che il documento congiunto firmato con la Mezzaluna “può servire come una buona base per il termine del conflitto della zona di Idlib e la fine della sofferenza per la popolazione civile”. Secondo Erdogan “le forze del regime siriano hanno violato gli accordi, e gli abitanti di Idlib sono scappati. Assad vuole spazzare via i civili in quella regione e noi non staremo a guardare”.Insomma, se tregua è, è una tregua armata. Al di là delle dichiarazioni ufficiali, dei sorrisi forzati, Resta il fatto che intorno a Idlib, nella Siria nord-occidentale, russi e turchi sono impegnati su fronti opposti: i primi a fianco del presidente Bashar al-Assad, determinato a spazzare via l’ultima roccaforte rimasta ai ribelli appoggiati a loro volta da Ankara. Uno scontro diretto tra forze turche e russe – dalle conseguenze devastanti – stava diventando ogni giorno più probabile, da quando Assad ha alzato il tiro sulla “zona de-militarizzata” definita a Sochi nel settembre 2018 (con la costituzione di una serie di “posti di osservazione” turchi), ed Erdogan è intervenuto per contrastarlo. Al prezzo già di diversi uomini, e violando – lo accusano i russi – le intese del 2018. Ma tra Idlib e il confine siriano-turco si sta aggravando una crisi umanitaria che coinvolge tre milioni di persone: il presidente turco non vuole che vadano ad aggiungersi ai 3,6 milioni di profughi già accolti dal suo Paese. Per questo, per ottenere il sostegno dell’Europa in Siria, ha aperto loro i confini verso la Grecia.

“Lavoreremo insieme per portare aiuto ai siriani che ne hanno bisogno”, ha detto Erdogan nelle dichiarazioni alla stampa seguite al confronto con Putin. Avvertendo però che la Turchia mantiene il diritto di rispondere agli attacchi del regime di Damasco. Ed è questo che metterà alla prova il documento di Mosca: dietro le strette di mano scambiate al Cremlino, il problema di fondo è che Putin concorda con Assad, determinato a riprendersi l’intero Paese, e considera terroristi le forze ribelli sostenute dai turchi. Forze con cui non è possibile alcuna intesa. Per queste ragioni in passato gli accordi per un cessate il fuoco sono sempre falliti. Mentre gli accordi di Mosca, se rispettati, segnerebbero un punto a favore di Putin, dal momento che il “pattugliamento congiunto» lungo l’autostrada M4 affrancherebbe una presenza russa in un’area ancora sotto controllo dei ribelli siriani. E dove Erdogan vorrebbe creare una zona cuscinetto in cui reinsediare milioni di profughi.

Michael Tanchum, analista dell’Austrian Institute for European and Security Policy, si concentra sull’insostenibile leggerezza del patto russo-turco: “chi pensa che Turchia e Russia abbiano un sodalizio strategico si sbaglia. È sempre stato un accordo transitorio. Ma sbaglia anche chi crede che un eventuale conflitto con la Russia possa spingere la Turchia verso l’occidente, perché la Turchia può agire su binari separati, ottenendo ricavi sul terreno che le permettono di avere una sua autonomia strategica”.

E così Zar e Sultano continueranno il loro gioco sulla pelle, e non è una metafora ma la tragica realtà, di un popolo, quello siriano, ridotto ad una moltitudine di profughi in un Paese distrutto, in uno Stato fallito.

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