LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e saggista.

I quarantenni (e Pietro Nenni)

  E il ‘13 va. Se abbia portato fortuna o meno non si sa. Certo l’anno fuggitivo lascia l’Italia orfana del signor B. Spaesati appaiono gli stessi irriducibili avversari di Berlusconi, il cui lungo viale del tramonto è cominciato ben prima della sua espulsione dal Parlamento e minaccia o promette di proseguire oltre questa cesura. Tanto più che, al pari di Berlusconi, i principali leader della stagione politica in corso non siedono nelle Camere: non il neo-segretario del Pd Matteo Renzi, né il guru dei Movimento 5 Stelle Beppe Grillo. Per non parlare del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, che ieri è nuovamente tornato ad ammonire Camera e Senato affinché riservino «il massimo rigore nella verifica dell’ammissibilità degli emendamenti» ai decreti legge nel corso del loro esame. Il riferimento immediato del Colle è al cosiddetto decreto «Salva Roma» che era stato inzeppato di commi e codicilli incongrui, prima che il governo lo ritirasse alla vigilia di Natale. Neppure il tempo di digerire il panettone ed ecco la strigliata quirinalizia da cui non possono chiamarsi fuori il premier Letta e i presidenti Grasso e Boldrini.

Il Grande Vecchio della Repubblica, 88 anni, continua a rivestire un ruolo essenziale e a far valere un primato che per taluni travalica le prerogative costituzionali della carica. Marco Travaglio ha dedicato a Napolitano il recente libro Viva il Re! (chiarelettere ed.), il cui sottotitolo è tanto ironico quanto severo: «Il presidente che trovò una repubblica e ne fece una monarchia». Da tempo Grillo non risparmia attacchi a «re Giorgio», del quale intenderebbe chiedere la messa in stato di accusa, l’impeachment nel lessico costituzionale degli Usa. E ieri dagli scanni di Forza Italia è giunto l’inusitato invito a boicottare il messaggio televisivo presidenziale di fine anno.

Insomma nell’Italia post-berlusconiana e quasi incredula di essere tale, Napolitano è l’unico protagonista in grado di calamitare consensi e dissensi, di suscitare ammirazione e avversione. Egli gode di un prestigio internazionale indiscusso, eppure è bersagliato da una malcelata insofferenza talora da parte dei medesimi che pochi mesi fa lo hanno supplicato perché accettasse il secondo mandato. È l’ennesimo paradosso italiano, a petto di una dichiarazione prefestiva di Enrico Letta: «Il 2013 sarà ricordato come l’anno della svolta generazionale: si è affermata una generazione di quarantenni senza alcun precedente nella storia repubblicana, se non nell’immediato dopoguerra. Ebbene, non possiamo fallire».

È vero. Il presidente del Consiglio, e Matteo Renzi, ma anche Angelino Alfano sono più o meno quarantenni. E sono giovani molti dei dirigenti freschi di nomina del Pd o dei volti che Forza Italia e il «Nuovo Centro Destra» (sigla invero vecchiotta) schierano nei talk show. Giovani anche gli sconfitti delle «primarie» democratiche: Pippo Civati e, un po’ meno scattante, il cinquantenne Gianni Cuperlo. Si affacciano alla ribalta i ragazzi degli anni Settanta e reclamano di essere messi alla prova. Di fatto, sono già «al potere». Purché abbiano più fortuna del leader socialista Pietro Nenni ai tempi del primo centro-sinistra: «Pensavo di entrare nella stanza dei bottoni, ma non li ho trovati».

Già, mentre non pochi fra i giovani (anche negli enti locali) sono stati a bottega dai vecchi volponi nei giochetti e trucchetti della politica, il problema resta quello segnalato da Nenni: dov’è il potere? È palpabile? Come si manifesta? Quali dinamiche asseconda o mette in moto? Oggi risponde più a criteri di classe o a divisioni generazionali? Che ruolo tocca alla politica rispetto alle logiche/illogiche dell’economia? Gli Stati nazionali conteranno ancora qualcosa nel mondo globale della finanza? L’Europa vista da Sud è un malinconico piagnisteo anti-Merkel o possiamo fare di più?  Sono soltanto alcune delle domande alle quali la sinistra italiana non ha risposto, invero mai ponendole negli ultimi lustri, ossessionata com’era dalla Noemi o Ruby di turno nelle stanze private del Cavaliere.

Si intende dunque che la questione giovani-vecchi rischia di diventare un altro siparietto sul palcoscenico delle nostre eterne maschere in commedia. La gerontocrazia in Italia è un dato di fatto; d’altro canto la giovinezza come valore in sé evoca ricordi infausti, per esempio l’elogio che ne fece il fascismo.  Un po’ di disincanto in proposito non guasterebbe. Ricordate l’adagio di Alberto Arbasino? «In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di “brillante promessa” a quella di “solito stronzo”. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di “venerato maestro”». Uno di questi maestri, Benedetto Croce, caro all’umanesimo meridionale di Napolitano, sostenne: «L’unico problema dei giovani è invecchiare». Era nel torto, ma con le sue ragioni.

Articolo pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 28 dicembre 2013

 

 

  1. Il teatrino della politica in realtà è solo uno specchietto per le allodole, per intrattenere il pubblico. Perché le decisioni importanti, oggi più di ieri, vengono prese altrove, dall’anonima finanza internazionale.

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