Ha ragione il Financial Times quando correggendo la stroncatura nella quale era incappato il giorno prima il nostro Presidente del Consiglio, ha identificato nelle qualità personali di Bersani e nella credibilità internazionale di Monti l’unica, concreta speranza per un “nuovo inizio”. E, tuttavia, anche nell’ipotesi – tutt’altro che scontata – che tra trenta giorni un’alleanza tra Centro e Centro Sinistra risulti necessaria e sufficiente per governare, permarrebbero due straordinarie complicazioni per poter davvero far ripartire l’Italia: la prima è determinata dalla distanza tra i due leader che, in questi giorni, si sta allargando fino a raggiungere i caratteri di una diversità ideologica che può rappresentare un punto di non ritorno; la seconda è che se anche i due riuscissero a mettersi d’accordo, si troverebbero successivamente a fare i conti con vincoli che sono molto più diffusi di quelli rappresentati da qualche ala estrema, come sembra credere il Professor Monti.
Sono pesantissimi, in effetti, gli attacchi che Monti ha, in questi ultimi giorni, sferrato contro le posizioni che Bersani dovrebbe “silenziare”. Ed è solo ovvio che sia stato lo stesso Bersani a incaricarsi di ribadire alleanze ratificate attraverso un processo comunque democratico. E forse ha ragione Vendola quando, nonostante qualche precedente apertura, rileva che ormai lo scontro sia di profonda differenza nelle stesse categorie semantiche che si utilizzano per osservare la realtà e costruire un’idea di futuro.
Gli effetti finali sono chiari: il Centro si allontana dal Centro Sinistra e, probabilmente, dallo scontro guadagnano voti gli altri che stanno probabilmente rientrando in gioco.
Ma c’è un elemento ulteriore che lascia perplesso della logica del “taglio delle posizioni” che Monti (e lo stesso Financial Times) continua ad invocare: i blocchi sociali che si oppongono alle “riforme radicali” di cui l’Italia ha urgente bisogno non vengono solo dalla CGIL o dalla sinistra radicale.
Lo dimostra la vicenda – assolutamente centrale per il suo valore non solo effettivo ma anche simbolico – della riforma del mercato del lavoro che anche nella sua forma finale, molto smussata nei suoi aspetti più innovativi, è stata contrastata praticamente da tutti. Ma lo dimostrano anche le due questioni che, pur essendo assai poco discusse, sono forse le più importanti per arrivare ad una revisione della spesa pubblica più intelligente di quella provata da precedenti Governi e, in definitiva, ridurre le tasse e tornare a crescere: le pensioni ed, in particolar modo, la possibilità di toccare il totem dei “diritti acquisiti” che pesano come un macigno sulla quantità e qualità della spesa dello Stato; la riforma del pubblico impiego e, nello specifico, la capacità di mettere in discussione l’inamovibilità dei dipendenti pubblici che costringe le pubbliche amministrazioni ad usare la sola leva del blocco delle assunzioni per poter dimagrire e, dunque, ad una spirale di sempre maggiore obsolescenza e ulteriori richieste di tagli.
Sulle pensioni ha ragione Bersani quando dice che sono solo le pensioni “vecchie” (e gli interessi sul debito pubblico) ad essere disallineate rispetto agli altri Paesi. Non tutti, però, hanno un’idea dell’ampiezza del disallineamento. L’Italia spende in pensioni, secondo l’INPS, quattro punti e mezzo di PIL (17,1%) più della Germania (12,8) e se ci riallineassimo ai livelli di spesa del Paese con il welfare più sviluppato del mondo (del resto in Germania ci sono molti meno anziani che vivono sotto la soglia di povertà rispetto all’Italia) potremmo risparmiare circa 80 miliardi di euro: da destinare al taglio delle tasse o, magari, all’educazione, visto che se sommiamo scuola, università e ricerca arriviamo a risorse pari a poco più di un quinto di quelle che eroghiamo ai pensionati. Spostare risorse dal passato al futuro è ovviamente una misura per la crescita. E, tuttavia, quello delle pensioni è il primo esempio di quanto siano più vaste delle ali estreme le resistenze al buon senso. Alla costruzione di un sistema iniquo hanno collaborato tutti, datori di lavoro e sindacati e del resto, basta vedere i numeri della rappresentanza per rendersi conto che negli ultimi trent’anni è diminuita la presenza delle confederazioni nelle fabbriche ed è aumentata di molto tra i pensionati.
Il pubblico impiego è l’altro nodo decisivo per far ripartire l’economia italiana ed è evidente quanto le resistenze siano trasversali. È vero quanto afferma, ad esempio, Bersani quando dice che la revisione della spesa ha portato a non avere più la benzina nelle macchine della Polizia. Ma è altrettanto vero che il confronto internazionale dice che nel Regno Unito – a parità di popolazione e crimini – ci sono la metà dei poliziotti che ci sono in Italia (e molta più tecnologia). Che da anni è evidente – soprattutto ai poliziotti e ai carabinieri – che non ha senso avere due organizzazioni che fanno le stesse cose negli stessi territori e che, però, una riorganizzazione senza poter, almeno, spostare le persone sarebbe l’ennesima montagna destinata a partorire un topolino. Che il 90% della spesa delle pubbliche amministrazioni è spesa in personale al quale mai si potrà applicare la mobilità del settore privato e che in questa condizione, anche la riduzione delle province – se anche mai andasse in porto – rischierebbe di avere effetti del tutto marginali. Così come pure è vero che se mai riusciremo a metterci nella condizione di poter rimuovere un dirigente incapace o di premiarne uno meritevole, rischieranno di essere vani persino gli sforzi di Fabrizio Barca di non sprecare le uniche risorse pubbliche che questo Paese ha a disposizione per lo sviluppo.
Eppure, di nuovo, una questione così importante è dimostrazione che gli ostacoli alle riforme radicali possono prescindere dalle ali estreme e dagli idealisti: capita, infatti, che la resistenza può venire persino dallo stesso Governo Monti, dal suo ministro della Funzione Pubblica che si affrettò qualche mese fa a chiarire che la travagliata riforma dell’articolo diciotto mai avrebbe, comunque, toccato quel totem che costringe le stesse pubbliche amministrazioni all’inefficienza.
Resistenze diffuse, dunque. L’antidoto, l’unico possibile, è rinunciare a parlare di luoghi estremi dove si anniderebbe la conservazione e ammettere, come Monti dimostra di sapere quando invoca una ristrutturazione dell’offerta politica, che le resistenze al cambiamento esistono ovunque. Bisognerebbe parlare fino in fondo il linguaggio della verità. Ammettere che il costo di avere troppi pensionati o troppi poliziotti lo pagano anche i poliziotti senza benzina, gli studenti senza più assegni di ricerca, le piccole imprese con troppe tasse e i percettori di pensioni più basse – che pure sono tra gli elettori che Monti e Bersani rappresentano. Parlare il linguaggio della verità: facendolo fino in fondo, in maniera chiara, è possibile persino convincere i privilegiati che un sistema non più sostenibile si troverà presto – se continuiamo così – senza nessuno rimasto a pagare i loro privilegi.
Articolo pubblicato su Il Messaggero e su Il Mattino del 25 gennaio 2013