Per il risultato delle elezioni che si sono tenute nei due Paesi che hanno rappresentato meglio, per un secolo, l’idea stessa di Occidente, questo 2016 sarà ricordatocome l’anno che sconvolse la Storia. Venticinque anni dopo che Fukuyama ne aveva immaginato la fine con il trionfo definitivo delle liberal democrazie mentre cadeva l’ultimo muro a Berlino. Eppure se a decidere fossero state le persone tra i 18 e i 34 anni, il treno della storia sarebbe ugualmente ripartitoma verso una direzione opposta.
Anche in Italia,i risultati del referendum dicono che le opinioni dei giovani non sono mai state così diverse da quelle dei propri genitori; forte è, però,la difficoltà del sistema politico a rifletterle nelle proprie scelte, nonostante il ricambio generazionale che è stato tratto distintivo dell’ultimo governo. Ciò apre un problema di democrazia che è quasi completamente assente nel dibattito sulle costituzioni, sulle leggi elettorali, sulle forme che le istituzioni stesse devono assumere per tener conto delle sfide di un ventunesimo secolo che spetterebbe ai giovani rappresentare.
Se negli Stati Uniti avessero votato solo gli elettori con meno di 35 anni (un terzo del corpo elettorale), Trump avrebbe perso dappertutto, persino negli Stati nei quali ha sempre vinto un repubblicano come il Texas. Tuttavia anche in questa ipotesi,Clinton non sarebbe stata eletta ed al suo posto avrebbe vinto le primarie del Partito Democratico Bernie Sanders che, a settantacinque anni, riesce a trascinare più giovani di chiunque altro, con una retorica che appartiene ad un socialismo che non ha mai avuto cittadinanza politica negli Stati Uniti.
Nel Regno Unito, invece, due terzi dei giovani votarono a Giugno per rimanere nell’Unione e, se solo la loro partecipazione al voto fosse stata pari a quella delle altre fasce d’età, David Cameron, oggi, sarebbe ancora più forte. Il premier britannico continuerebbe, però, a dover fare i conti con uno stagionato politico marxista – Jeremy Corbyn – che grazie ai giovani ha scalato il partito laburista cambiandone per sempre gli equilibri interni. Infine, l’Italia: a condannare il più giovane presidente del Consiglio sono paradossalmente gli elettori con meno di trentacinque anni, tra i quali meno di uno su cinque ha votato a favore della riforma costituzionale e che, comunque, faticano a riconoscersi in tutti i partiti che sono o sono stati al governo del Paese negli ultimi cinque anni.
Nel frattempo il costo della crisi si scarica, dovunque, in maniera più che proporzionale sulle spalle di chi si è appena avvicinato al mondo del lavoro, laddove ciò costituisce un paradosso formidabile considerando che i giovani costano di meno e dovrebbero essere più flessibili. E le scelte politiche – come quelle di manovre finanziarie sulle pensioni anticipate – confermano l’invisibilità delle generazioni che già vivono una rivoluzione tecnologica che sta per cambiare tutto.
Sembra un mondo capovolto. Ed il problema è che così rischiamo di avere democrazie che non coinvolgono chi rappresenta interessi di vitale importanza e rischia, anzi, di radicalizzarne la partecipazione. Il paradosso, del resto, è che la minore partecipazione dei giovani al voto non equivale ad una minore politicizzazione. Sono quasi tutti ventenni quelli che animano la piazza che New York e Londra hanno riscoperto dopo i risultati delle ultime elezioni. Sono giovani imprenditori quelli che organizzano intere comunità che sperimentano nuove forme di welfare.
Ed è allora forse il tempo di cominciare a riflettere sulle forme della democrazia del futuro, non fosse altro perché saranno i giovani ad abitarlo.
Non può più essere solo il seggio elettorale il luogo nel quale esercitare il proprio diritto e i cittadini devono avere la possibilità di scegliere seesprimersi a distanza. Non possono più essere solo le elezioni l’unico meccanismo attraverso il quale la democrazia aggrega le preferenze degli individui etrasforma conoscenza diffusa in scelte collettive. Gli stessi referendum non possono più pretendere di ridurre ad un SI o ad un NO un giudizio che non può che essere articolato considerando che i partiti convenzionali non riescono più a contenere opinioni diversificate.
L’organizzazione dei collegi elettorali e la rappresentanza politica non può più essere, infine,solo per territori. I giovani, soprattutto quelli più preparati, sono definiti dalla mobilità e, dunque, hanno una propria potenziale base elettorale che ègeograficamente dispersa e, dunque, penalizzata rispetto a quella di chi è vissuto sempre nello stesso posto.
Sono innovazioni di questo tipo che possono riavvicinare istituzioni e generazioni allontanate dalla crisi e da invenzioni rivoluzionarie. È il momento di occuparcene anche quando parleremo nuovamente di riforme istituzionali e di forme della democrazia: un dibattito che non dovrà mai più ridursi ad uno scontro ideologico tra visioni che sembrano entrambe pensate per un secolo già passato.
Articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 19 Dicembre