Quasi vent’anni dopo il Leone d’oro per Vive l’amour, il taiwanese Tsai Ming-liang (nato nel 1957 in Malaysia) punta al bis grazie a Jiaoyou (“Cani randagi”) molto applaudito ieri a Venezia, in particolare alla fine della proiezione per la stampa. E’ la semplice storia di un padre e dei due suoi figlioletti che vivono in miseria e vagabondano ai margini di una piovosissima Taipei, dormendo dove capita e sopravvivendo con i campioni di cibo gratuiti raccattati nei supermercati. Un dramma del degrado, che rischia di avere una svolta tragica per i piccoli nel corso di una notte tempestosa. A salvarli dalla disperazione paterna interviene una donna che porta da mangiare ai cani in un edificio abbandonato, dove un’immagine murale dal sapore agreste ogni volta la ipnotizza e la conquista fino alle lacrime.
Ma il contenuto dice poco o nulla del film, il cui stile radicalizza l’estetica già estrema del regista di Il buco e Il gusto dell’anguria: tempi lentissimi dell’azione/inazione, fissità programmatica nel fotogramma, contemplazione estenuante delle cose, fino all’epilogo di circa quindici minuti in cui l’uomo e la signora dei randagi restano fermi davanti a quell’immagine. Tsai Ming-liang, adorato nei festival del cinema quanto ormai nelle rassegne d’arte contemporanea, coltiva un grado zero della visione che consente allo spettatore di riappropriarsi del reale con le sue pieghe altrimenti “invisibili”, nell’alveo dell’eredità di Antonioni. Una realtà interstiziale che tuttavia suscita – di là dalla noia e dal sonno catartici e in qualche modo previsti dall’autore – uno choc sentimentale e sociale. E siamo vicini al paradosso dei film che guardano noi, naturalmente distraendosi!