LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e saggista.

I festival sono inutili? No, è pregiudizio universale

I festival non servono, se non a coloro che li organizzano o ai politici che li finanziano e se ne beano. I festival non «incontrano» il mercato e non lo stimolano. «Piazze piene, librerie vuote», qualcuno motteggia, parafrasando l’autocritica del leader socialista Pietro Nenni dopo la storica sconfitta del Fronte Popolare nel 1948. Il riferimento alle sorti della sinistra non appaia peregrino, giacché i festival in Italia cominciano a moltiplicarsi giusto lungo il viale del tramonto della grande narrazione marxista. Fu un’intuizione dell’architetto e assessore comunista Renato Nicolini nelle amministrazioni capitoline fra i Settanta e gli Ottanta del secolo scorso: l’«effimero» spettacolare a mo’ di antidoto al timor panico degli «anni di piombo» e come penultima spiaggia della sinistra.

Un esempio? Allen Ginsberg e le decine di altri poeti giunti da mezzo mondo sul litorale di Castelporziano nel giugno 1979. In quel periodo il declino dell’opzione etica dà la stura all’ambizione estetica di massa. E fu subito più Dams per tutti; fu Parco Lambro con le tette in mostra e i piselli penduli a festeggiare il Re Nudo fra le cascine meneghine; furono il Napoleon di Abel Gance all’Arco di Costantino, le pellicole peplum e l’horror nelle maratone romane al circo di Massenzio («Abuso di rovine», accusò Arbasino). Come dire? Engels, ascolta si fa sera…

Oggi il festival è spesso denominato «evento» al pari di una vociante assemblea di protesta a Ponte di Legno o della sagra te lu purpu salentina: termine tra i più abusati della lingua italiana peraltro residuale nel gergo degli eventi. Ma la questione riguarda piuttosto l’avvento. «I festival lasciano il tempo che trovano», decreta un pregiudizio in via di radicamento nella Penisola delle Cicale dove a ogni piè sospinto spunta un cartellone, una kermesse, un flash mob, una start up e via così, anglicizzando ambizioni e speranze. Il luogo comune ostile ai festival è una variante in sedicesimo del paradigma ultra-liberista che non vorrebbe scucire un soldo pubblico neppure per gli ospedali o i treni, e naturalmente, a monte, per le tasse. Poi, gioca un ruolo il riflesso pavloviano di quanti detestarono il successo dei Festival dell’«Unità», l’unico rito pop non televisivo dell’Italia postbellica, che per oltre mezzo secolo garantì al Pci un surplus di consensi attraverso le salsicce o il liscio di Casadei, viatico per il dibattito colto e il comizio finale. Archiviata la grande illusione del panem garantito ai proletari, adesso si vorrebbero diradare anche le più modeste allucinazioni dei circenses. Ovvero, con Hobbes, primum vivere, deinde philosophari: motto sempre difficile da smentire, a meno di non essere satolli o visionari.

Contro il suddetto pregiudizio si schiera la composita tribù degli operatori culturali, agitando lo slogan «Con la cultura si mangia» che rovescia polemicamente una frase dell’ex ministro Giulio Tremonti, forse infelice, però non del tutto fasulla. Già, perché a dispetto della crescente incidenza sul Pil dell’economia culturale con la sua variegata filiera, bisognerà pur riconoscere che senza il motore keynesiano delle risorse pubbliche essa avrebbe il non trascurabile problema della sopravvivenza. È l’ennesima specificità del Belpaese: pronto a pagare senza battere ciglio venticinque euro per una pizza e birra con vista-nulla, invece riottoso fino alla rivolta se un terzo della cifra corrisponde al biglietto di una mostra d’arte o di uno spettacolo teatrale.

Eppure i festival non lasciano il tempo che trovano, anzi, anticipano o contraddicono lo Zeitgeist, sono scie luminose nei passaggi di stagione o aforismi del futuro. Prendete la Biennale Arte del 1974 interamente dedicata al Cile e schierata contro la dittatura militare di Pinochet, con le opere di Emilio Vedova e Sebastian Matta e i murales nei campielli veneziani a testimoniare una novella brigata internazionale nel nome di Salvador Allende. O la memorabile Biennale del Dissenso 1977, presieduta da Carlo Ripa di Meana, che presentò «una prospettiva non ufficiale dell’arte sovietica» e si affidò a un gruppetto di esuli dell’Est – tra i quali Jirí Pelikan e Gustaw Herling – per la curatela delle iniziative e dei convegni. Scatenando un putiferio politico-diplomatico-culturale, la Biennale del Dissenso presagì in laguna l’autunno del patriarca moscovita con largo anticipo sulla caduta del Muro di Berlino dell’89. D’altronde, un po’ di quello spirito dev’essere di casa a Ca’ Giustinian se l’attuale presidente della Biennale, Paolo Baratta, non smette di rivendicare il gusto del rischio come cifra distintiva dell’azione culturale.

La sfida alle convenzioni, l’azzardo ragionato, lo scandaglio dei margini, il rilancio di un folclore o di un ambito disciplinare all’apparenza desueto, un approccio coraggioso rispetto al proprio albo d’oro… Ecco alcuni tratti distintivi dei festival e degli «eventi» (e sia) degni di essere considerati tali. La Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia è il primo festival europeo, nato nel 1932. Le ultime edizioni dirette da Alberto Barbera si caratterizzano per film anti-narrativi, inchieste o reportage, docu-fiction, materiali ibridi che innestano elementi di finzione in trame storiche, o viceversa. Non si tratta della mera rinascita del genere documentario consacrata dal Leone d’oro 2013 a Sacro GRA di Gianfranco Rosi (premiato con l’Orso di Berlino nel 2016 per Fuocammare), bensì di un movimento più complesso e tormentato, tuttavia felice negli esiti, che riflette sulla macchina-cinema mentre la decostruisce e la ricombina, e a Venezia trova una sua ribalta. Oltre la frusta mondanità divistica o il marketing delle case di produzione sul tappeto rosso, tra gli innumerevoli film festival italiani rilevano l’esperienza trentennale di Torino, il «Far East» di Udine che coltiva lontananze senza esotismo, e il salernitano «Giffoni» sul versante divulgativo rivolto ai ragazzi.

Di là dal cinema, fanno testo le esperienze del Festivaletteratura di Mantova, che ha concepito e perseguito negli ultimi vent’anni un modello cui contribuiscono in primis i cittadini; quelli della Filosofia e del Diritto in Emilia Romagna, e dell’Economia a Trento; le «Lezioni di Storia» laterziane che dall’auditorium del Parco della Musica a Roma si sono diffuse in varie città italiane e all’estero, le non meno nomadi «Lezioni di Rock» dei giornalisti Gino Castaldo ed Ernesto Assante. La Notte della Taranta nata vent’anni fa nel minuscolo comune leccese di Melpignano, grazie all’intuito del giovane sindaco Sergio Blasi e di alcuni studiosi, ha rivitalizzato una tradizione etnomusicale (certo, correndo i rischi del caso) e un’area sino a quel momento periferica nell’immaginario collettivo, con qualche beneficio turistico. La Milanesiana di Elisabetta Sgarbi allestisce da alcuni lustri rassegne «a tema» innervate da autori internazionali celeberrimi o emergenti e da un afflato non provinciale che giova innanzitutto a Milano. Il Rossini Opera Festival di Pesaro e il Festival della Valle d’Itria a Martina Franca si segnalano per il recupero di opere inedite o trascurate, affidate a registi che colà si affermano (vedi Damiano Michieletto), mentre lo storico «Due Mondi» di Spoleto resta un appuntamento assai vivido. Il Ravenna Festival guidato da Cristina Mazzavillani Muti, grazie alle sue «Vie dell’amicizia» dal 1997 intraprende ogni anno un «pellegrinaggio laico» verso città ferite o luoghi simbolici, affidato al carisma di Riccardo Muti che ha diretto concerti a Sarajevo, Beirut, Gerusalemme, Erevan e Istanbul, Il Cairo, Damasco, Nairobi, Redipuglia, Otranto…

Pace e musica. Sul versante rock basterà menzionare Woodstock 1969 per convincersi che no, i festival non lasciano il tempo che trovano. Ma non ditelo all’assessore al ramo e all’organizzatore al remo della politica perché se poi lo ripetono sul palco è finita, e non ci resta che rimpiangere o compiangere.

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pregiudizioQuesto testo, dal titolo «I festival culturali lasciano il tempo che trovano», è tratto dal volume «Il Pregiudizio universale. Un catalogo d’autore di pregiudizi e luoghi comuni», da oggi in libreria per i tipi di Laterza nella collana «i Robinson/ Letture» (pp. 416, euro 18,00).

A diverse personalità è stato chiesto di rovesciare i tanti pregiudizi, luoghi comuni, credenze che affollano spesso il discorso pubblico. Ne è venuto fuori un catalogo – spiega Giuseppe Antonelli nell’introduzione – un po’ giocoso che, però, dice tantissimo su un modo di percepire a volte passivamente il mondo circostante. Idee molto diffuse senza alcuna prova – i clandestini sono delinquenti – e altre legate a pii desideri – come per esempio «la lettura dei libri ci rende migliori». Pregiudizi negativi, come quello che dice che i meridionali campano alle spalle del Nord, e pregiudizi apparentemente positivi, come quello secondo cui gli omosessuali sono sensibili o gli ebrei intelligenti. Pregiudizi evidenti – come quello che vuole l’Islam violento – e altri che non sembrano tali, come «il pubblico ha sempre ragione». A «smontarli» ci pensano, con stile leggero e argomenti pesanti, più di 80 autori competenti: Agnoli, Ammaniti, Anastasia, Andreatta, Anselmi, Antinucci, Augias, Azzariti, Banti, Barbujani, Basilone, Bauman, Bernabè, Bevilacqua, Bietti, Boitani, Borgna, Canfora, Cantarella, Canu, Carandini, Cardinale, Cardini, Castaldo, Castronovo, Cipolletta, Colarizi, Concia, Cornaglia-Ferraris, Croppi, Culicchia, d’Albergo, Dalla, Zuanna, Daveri, Davigo, De, Capitani, De, Felice, de, Lillo, (alias, Elasti), De, Romanis, Diamanti, Di, Paolo, Farinelli, Ferraris, Firpo, Foa, Focardi, Fresu, Giorello, Giovannini, Grieco, Guidoni, Iannetti, Iarussi, Lagioia, Lipperini, Magrelli, Manconi, Marras, A. Mauri, S. Mauri, Mercalli, Montanari, Onado, Orlandi, Pagnoncelli, Pandolfi, Petrini, Piccione, Pievani, Pignatone, Pinto, Reichlin, Remotti, Ricolfi, Romano, Roncaglia, Sami, Saraceno, Scego, Solimine, Spinelli, Ticca, Valerio, Valletti, Vanzina, Veca, Veladiano, Veronese, Viesti, Visco.

 

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