E’ se l’ISIS non esistesse? Se le bandiere nere del Califfato non fossero altro che una rappresentazione ingigantita della realtà su un campo che attraversa Siria e Iraq? E se è così, come ci possiamo risvegliare dall’incubo, da questo e dagli altri – anche l’Ebola appartiene alla categoria – che periodicamente riempiono tutto lo spazio dei telegiornali e della nostra preoccupazione?
Pochi l’hanno notato ma le scene delle decapitazioni sono una citazione di un film che ebbe grande successo qualche anno fa: in Seven si racconta di un serial killer – Kevin Spacey – che si converte alla realizzazione di una storia messianica – quella dei sette peccati capitali – e sconfigge così due poliziotti, persone normali – Brad Pitt e Morgan Freeman – manipolandone le esistenze e consegnando a loro il compimento finale della propria vendetta. Nella scena finale (http://www.youtube.com/watch?v=Yfqvdr6BSYk), l’assassino – completamente rasato, inginocchiato nel deserto, vestito solo di una tunica arancione come quella dei condannati a morte dell’ISIS – viene ucciso dal poliziotto al quale aveva fatto appena trovare la testa della moglie incinta in un pacco. Nella realtà l’unica differenza è che il carnefice è l’angelo sterminatore che giustizia un infedele che è, poi, una persona normale che si augurerebbe solo di poter tornare insieme ai propri familiari.
In effetti – come Al Qaeda – lo Stato islamico sembra avere nella spregiudicata appropriazione di simboli che appartengono al proprio nemico il proprio elemento fondante.
Quindici anni fa Osama Bin Laden, consumava come se fossero candelele Torri più belle, quelle che avevano chiamato addirittura il Centro del Commercio Mondiale facendone il simbolo stesso della globalizzazionee il bersaglio perfetto di chi vi si opponeva. A compiere la missione furono una cinquantina di anti-eroi che come nei film d’azione più arditi sottraggono al nemico le sue armi – aerei pieni di kerosene – per lanciargliele contro e che però – a differenza dei super eroi dei film – sono disponibili al sacrificio della propria vita.
Oggi l’ISIS, di nuovo, ci offende perché usa le tecniche degli spot pubblicitari che abbiamo inventato noi. Recluta tra gli occidentali barbieri, studenti, periti di assicurazioni e avvocati laureati nelle migliori università americane. E li manda in prima linea per dimostrare che stanno vincendo loro, nelle nostre coscienze, capaci di piegarle alla conversione con la forza di valori assoluti che noi non abbiamo.
La differenza è, però, che l’ISIS sembra aver realizzato il sogno che era sfuggito persino a Osama: dice di essere diventato Stato, non è più invisibile come la rete dei terroristi globali, ha una Capitale. Non è riconosciuto da nessuno ma la sfida è quella di accettare lo scontro a viso aperto.
In entrambi i casi – ed è questo che gli analisti di tutto il mondo continuano a sottovalutare – l’attacco non è solo all’America; la contestazione non è solo geo politica o commerciale. Ad essere colpiti con il World Trade Centre e le decapitazioni è l’intero Occidente e la rappresentazione di un secolo – il nostro – potente e vulnerabile quanto nessun altro periodo della Storia. Sotto attacco siamo noi come società, molto di più delle politiche in medio oriente o nelle relazioni con gli arabi. Nella parte più profonda delle nostre coscienze.
Ma come è possibile? Che un gruppo di fanatici tagliagole con qualche centinaio di tank rubati al nemico, non siano stati ancora spazzati via mentre sulle loro teste volano droni senza pilota, aerei invisibili ai radar e bombe che possono essere guidate con precisione chirurgica su bersagli piccoli e in movimento? Come vincere una guerra che non è più neppure asimmetrica come quella di Osama, ma giocata interamente sui valori e il loro contrario?
Le strade sono due e affiancano i bombardamenti che rischiano di essere sempre meno efficaci. Una più di breve periodo e l’altra da realizzare in tempi più lunghi.
La prima è agire sull’offerta. Colpire direttamente l’offerta di immagini che arriva dai terroristi. Fare quello che McLuhan, il sociologo che fece dello studio dei Media una disciplina, suggerì per tagliare l’erba sotto i piedi dei terroristi: spegnere la televisione. Lanciare un appello dei governi occidentali a tutti i grandi network di eliminare dalle proprie trasmissioni qualsiasi immagine o video prodotta dalla multinazionale del terrore; dare uno spazio equivalente alle altri guerre dimenticate che mietono ogni giorno centinaia di vittime alle periferie del mondo; dare visibilità alle tante storie di europei che senza convertirsi sono in Africa o in Asia a ricucire corpi martoriati e a distribuire viveri nei campi profughi; far slittare dalle prime pagine a quelle interne, le cronache dell’orrore.
Un orrore studiato tavolino per sfruttare a proprio vantaggio una delle caratteristiche occidentali maggiormente contrastate dall’integralismo islamico: la società dell’immagine, quel principio per cuise e solo se qualcosa si vede allora esiste. Se si spegnessero le televisioni, senza più cassa di risonanza, verrebbe meno il senso ultimo delle esecuzioni: non forse la decapitazione in sé, ma la sua realizzazione, o meglio reificazione, tramite la diffusione mediatica.
La seconda strada molto più di lungo periodo è quella – difficile ma ormai non rimandabile – di lavorare sulla domanda. Perché l’occidente, una parte dell’occidente, continua a sentire quel vuoto di valori che i profeti di sventura periodicamente occupano? Non è vero che la rivoluzione francese o quella americana non avevano un’aspirazione verso valori universali. Gli ideali non ci sono alieni e convinsero generazioni di europei a rischiare la vita. Sul piano personale e quello politico. C’è la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: ci vollero due rivoluzione e due grandi Guerre per arrivarci, ma alla fine tutti – Stati e culture diverse – vi hanno aderito. Che torni essa ad essere – ancora prima delle convenienze commerciale di breve periodo – il criterio sulla base del quale si regolano le relazioni internazionali in maniera tale che chiunque le violi sistematicamente sappia di dover affrontare l’isolamento e di non poterla passare più liscia.
Ma c’è anche la famiglia che è il fronte sul quale gli integralisti fanno più proselitismo che però non è estranea alla nostra tradizione. Le parole che centinaia di milioni di uomini e donne è che “promettono di amarsi … ogni giorno della vita”. Quelle parole oggi suonano bellissime e illogiche. Disquisendo su quella irragionevolezza e ipocrisia, abbiamo – negli anni settanta – giustamente scisso società e religione. E, tuttavia, oggi ci rendiamo conto che al loro posto è rimasto un buco nero che non siamo più riusciti a riempire.
In fin dei conti, Barack Obama sei anni fa vinceva proponendo – nel libro dedicato al padre – una politica che avesse, di nuovo, forti contenuti valoriali. Non un ritorno allo Stato etico o un ritorno ad un passato che non c’è più. Ma di certo l’idea era quella di una società che tornasse ad avere una prospettiva di lungo periodo. Dopo sei anni i capelli di Barack sono incanutiti e l’occidente appare di nuovo svuotato. Forse è in questo vuoto che s’insinuano e si fanno spazio l’ISIS e i nostri peggiori incubi.
Articolo pubblicato su Il Messaggero ed Il Gazzettino