“La grande bellezza” di Paolo Sorrentino prodotto dalla “Indigo Film” di Nicola Giuliano, Francesca Cima e Carlotta Calori, in associazione con “Medusa”, ha vinto l’Oscar per il miglior film straniero. Ma gli Oscar potrebbero essere addirittura due, come si accenna in questo articolo apparso oggi sulla “Gazzetta del Mezzogiorno”.
Paolo Sorrentino il suo Oscar l’ha già vinto. E può andarne fiero qualunque sia stato l’esito per La grande bellezza nella «notte delle stelle» conclusasi a Los Angeles quando in Italia albeggiava o quasi. È l’Oscar dell’orgoglio nazionale, talora scanzonato al pari di certe frasi su Facebook o Twitter riservate al film del quarantenne regista napoletano, al netto dell’invidia dei colleghi malcelata negli auguri di rito. L’Italia non brillava nella cerimonia hollywoodiana dal 1999 dello scatenato Benigni di La vita è bella. Come allora, sebbene la crisi abbia divorato la nostra proverbiale allegria, la dignità tricolore è parsa vivida. Non capitava da un bel pezzo; non fuori dai campi di calcio, dove puntualmente ci riscopriamo patrioti per novanta minuti. Definito «una metafora del declino italiano» («The New York Times»), La grande bellezza è dominato dal giornalista mondano Jep Gambardella (Toni Servillo), impegnato/disimpegnato in una quotidiana e ammaliante discesa agli inferi tra le rovine archeologiche e morali della capitale. Il Mastroianni alter ego di Fellini aveva una quarantina d’anni, Servillo nella trama del film ne compie sessantacinque, ma il successo internazionale di La grande bellezza certamente si giova del sostrato felliniano. Agli americani «nostalgici» dei bagni nella fontana di Trevi e della Vespa, Jep Gambardella ricorda con piacere La dolce vita e 8 ½ (quest’ultimo si impose agli Oscar giusto cinquant’anni fa).
D’altronde, da bravi eredi della commedia dell’arte, siamo abituati a far lo zanni e a spacciare per altro ciò che sentiamo: sì che la tristezza diventi bellezza, e la piccolezza si muti in grandezza. Non è la prima volta. L’Italia conquistò il mondo con La dolce vita, titolo ironico e assai equivocato di un film amarissimo sulle stagioni del boom. Il riscatto, dunque, può nutrirsi di un malinteso? Sì. Il fascino cinematografico di un Paese malinconico e decadente può fecondare una paradossale rivincita? Sì. L’Oscar che Sorrentino ha già vinto – magari insieme alla vera statuetta – cammina in bilico sul filo tra realtà e sogno, è sempre pronto a cadere e a rialzarsi. È questo un tipico carattere nazionale memore dei capolavori di Federico Fellini ma anche di Eduardo De Filippo, come Le voci di dentro che giusto Toni Servillo, in coppia col fratello Peppe, sta portando sul palcoscenico nella stagione in corso (pochi giorni fa era al Petruzzelli di Bari).
E se nel naufragio italiano fotografato da La grande bellezza, l’unica «salvezza» si scorge sull’isola dell’infanzia di Jep, forse il solo possibile riscatto sta nel ritrovare le radici. «Sa perché mangio solo radici?». «No, perché?». «Perché le radici sono importanti», confessa a Gambardella una suora missionaria e ascetica, chiamata «la santa» e prossima ai 104 anni! Lo scrittore rinunciatario, il giornalista benestante e pigro, il viveur insonne e disilluso, il protagonista in giacca rossa disamorato di tutto «rischia» così di diventare un buon viatico della ripresa.
Già nel 2009 l’Italia fu candidata all’Oscar per il miglior film straniero con Gomorra di Garrone, senza riuscire a entrare nella cinquina. Stavolta Sorrentino ha fatto centro – piace pensarlo – perché il malessere o addirittura l’agonia nazionale, ovvero il grottesco orizzonte dei «trenini delle feste che non vanno da nessuna parte», lascia intravedere uno spiraglio. Poco male se il domani ha gli occhi rivolti all’indietro. Pure in politica, dopo «la dolce vita» di Berlusconi, chi non ama Grillo e ha ancora voglia di credere in qualcuno, si affida per il momento a Renzi, una specie di democristiano di sinistra 2.0. Come dire? C’era una volta il futuro.
A me invece sembra che tanto impegno nella ‘costruzione’ del fenomeno Sorrentino-La grande Bellezza sia proprio il disperato tentativo di quella parte del sistema Italia che ha grandissime responsabilità nell’averci portato a questo pesantissimo declino socio economico (pil in caduta libera, imprese che chiudono, emigrazione da fine 800), ovvero quel mix di burocratico sistema di potere statale della fascia più alta + pseudoinformazione di regime + “industria” del cinema italiano + relazioni internazionali al massimo per fare pressing a favore del film, coese insieme nel tentativo di comunicare e/o dimostrare di servire ancora a qualcosa. Invece di produrre quello che ci occorre veramente (economia e posti di lavoro), producono la suggestione di un’Italia che in fondo in fondo ce la fa, che le cose non vanno così male, lavorando per una propagandisitca iniziezione di fiducia per le prossime norme anti-sociali di imminente approvazione. Sono le scatolette di cibo per cani passate per ‘cibo buono’ nell’undergroud di Kusturica, in questo abisso italiano dal quale grossi pezzi della società non vogliono farci uscire per non perdere i loro antichi privilegi. Non a caso la decadenza del film propone il grottesco della bassa statura etica dei suoi personaggi come italicamente amabile, come amabile deve essere percepita la decadenza italiana. Paolo Sorrentino è il cantore prescelto per far accettare questa decadenza. E’ il loro regista del nostro cibo per cani passato per buono. Infatti, non a caso, quando lo guardi percepisci che quello che vedi non è il cinema del pubblico, non è il cinema ‘della gente’, e non è nemmeno il cinema dei cinefili e degli appassionati. Semplicemente, non è il cinema. E’ altra roba, con altri scopi. Giuseppe Amodio
Tutto d’accordo tranne che per un passaggio… Gomorra è di Garrone.