Il direttore della rivista che ospita questo blog ci invita a riflettere su termini-concetto come pluralismo e etnocentrismo. Nonché su una corrente filosofica come il pragmatismo, che è la degnissima tradizione di pensiero americana autoctona (neopositivismo e filosofia analitica sono come è noto sistemi di idee americani di “importazione” europea). Credo che lo faccia sottintentendo rapporti fra culture e civiltà fatti di incontro, comprensione, collaborazione, integrazione. Sono propositi ottimi e condivisibili che non possono non vedere consenzienti le persone di buona volontà. Detto questo, mi sembra interessante, dal punto di vista di questo blog, ragionare sui presupposti teoretici e filosofici di questi termini-concetto, opportunamente inserendoli nel contesto del nostro pensiero, cioè della storia della filosofia occidentale. Senza pensare che questo per se stesso possa darci una guida per l’azione superiore a quella che può venire dalla nostra coscienza morale. A volte, infatti, sorge in noi, soprattutto in chi è o è stato “di sinistra”, un irriflesso modo di ragionare che è il portato delle vecchie credenze palingenetiche che il fiume della storia ha portato via con sé. E’ come se chiedessimo alla filosofia di darci certezze di buona condotta, rassicurazioni, conferme sulla bontà delle nostre opzioni etico-politiche. Ma alla filosofia in verità tanto non si può chiedere, essa non può. Essa non è fatta per rassicurarci, ma per “inquietarci”: traffica col “negativo” più che col positivo, con l’elemento tragico (cioè etimologicamente inconciliabile) della vita e non con una tranquilla way of life di certezze acquisite. Ecco allora, che, portata davanti al tribunale della ragione, anche la sacrosanta e moralmente auspicabile messa in discussione di ogni etnocentrismo pone non indifferenti problemi teorici. Possiamo mai uscire, ci si deve infatti chiedere, in modo assoluto da noi stessi, dal reticolo di tradizioni, credenze, pensieri, idee ricevute e rielaborate che ci costituisce? E può l’uomo occidentale avvicinarsi all’ “altro” e comprenderlo come fosse “tabula rasa”, dimenticando la sua etnocentrica identità, la sua situata condizione storica e geografica? Possiamo credere a finzioni anticoncettuali come il “velo di ignoranza” o la “posizione originaria”? Un vero incontro–confronto-integrazione può allora essere pensato solo nell’orizzonte della storicità, del reale come dialettico rapporto “asimmetrico” di forze conflittuali. E’ il concetto che con indubbio maestria esprimeva, fra gli altri, un maestro del Novecento come Hans Georg Gadamer quando parlava di Horizontverschmelzung (“fusione di orizzonti”). Oppure un antropologo storicistico ingiustamente dimenticato come Ernesto de Martino quando, fra l’altro da una posizione “di sinistra” e simpatetica con i deboli, definiva “etnocentrismo critico” la sua prospettiva. In sostanza: non possiamo non partire dai nostri pregiudizi, ma dobbiamo essere consapevoli che sono tali.
CROCE E DELIZIE